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Proprio così, questa non è un’invocazione disperata di qualche comune cittadino ad un supereroe dei fumetti, bensì l’invito lanciato da Mario Monti, ex commissario europeo per la Concorrenza sino al 2004, sul Financial Times di Venerdì 29 settembre 2011.

Ma cosa ha spinto Monti a lanciare un così accorato appello al popolo tedesco?

L’invito, forse più una sorta di ordine o direttiva camuffati da invito, è stato espresso in merito alla débâcle economica che da mesi sta travolgendo il Vecchio continente e che rischia di far naufragare il sogno dell’Europa unita; nella Germania, quindi, viene riconosciuta la potenza economica che può maggiormente garantire serietà e stabilità ad un progetto che rischia di collassare da un momento all’altro.

Proprio il 29 settembre il Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco, ha approvato l’ampliamento del fondo salva-stati con una sorprendente maggioranza: su 620 deputati federali hanno votato sì in 523 (considerato che l’attuale maggioranza di Governo di Angela Merkel conta una maggioranza di 315 deputati); un risultato non da poco, numeri che, in Italia, sono difficilmente raggiungibili … specie se si tiene conto che tra i voti favorevoli enumerati compaiono, oltre alla formazione di Governo attualmente costituita da CDU (Christlich Demokratische Union Deutschlands, partito cristiano-cattolico, da cui “proviene”Angela Merkel), CSU (Christlich-Soziale Union in Bayern e. V., partito cristiano conservatore bavarese) e  FDP (Freie Demokratische Partei, partito dei liberali), hanno dato il proprio voto favorevole altri partiti al di fuori della coalizione di maggioranza, come SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, partito socialdemocratico) e Grüne (Bündnis 90/Die Grünen, partito dei Verdi tedesco).

Per il no, oltre ad una quindicina tra liberali e democristiani, i radicali della LINKE, partito populista ed antioccidentale.

La Germania sposa quindi la causa Europa e mette sul piatto un ampliamento del Fesf (Fonds européen de stabilité financière o per preferirlo al “più internazionale” inglese Efsf: European Financial Stability Facility) a 440 miliardi di euro, 211 dei quali sarà la stessa a metterli di tasca propria! Una causa nobile, la salvaguardia dell’Unione Europea e di conseguenza dell’euro, finanziata da una coesione che, ancora una volta, lo stato Mitteleuropeo più “pesante” a livello internazionale  ha saputo mostrare al mondo intero; sì, perché l’ottima nuova tedesca incrociandosi con una nuova giungente da New York secondo cui il Pil (Prodotto interno lordo, ndr) USA sarebbe salito dell’1,3% nel secondo trimestre, potendo aspirare ad un 2% entro la fine di quest’anno, e le richieste per sussidi di disoccupazione sarebbero calate per un numero pari a circa 37mila unità (attestandosi ora a livello 391mila) hanno fatto volare le borse, facendo tirare un sospiro di sollievo in questo clima anche troppo nero.

Questo il quadro ai giorni nostri; ora la realtà, la quotidianità: dobbiamo avere paura della Germania? Molti articoli di giornale nei mesi scorsi riportarono il timore di vedere l’Unione Europea trasformarsi in una grande confederazione germanica dato che, non differendo la situazione di molto da ora, era prevalentemente la Germania a dettare le linee guida per mantenersi saldamente in piedi in questo periodo di crisi e per cercare di non far tracollare l’euro. Parecchi videro questa mossa come una sorta di colpo di mano da parte di “Angie”, così come qualcuno sembri vezzeggiarla, alle convenzioni direttivistiche dell’Unione; quanto dimostrato in questi mesi dalla Bundeskanzlerin (cancelliera federale; bund- in tedesco può essere adottato come prefisso dal significato di “federale”, originato da una radice che indica il senso d’insieme, ndr) è la pura realizzazione del sogno Europa: vedere finalmente una Comunità attiva, viva, vera e soprattutto funzionante!

Sarò credibilmente di parte in quanto sto per scrivere ma ritengo che a fine ragionamento si potrà raggiungere un comune punto d’arrivo.

La Germania è uno Stato cui non piace ridere, scherzare e giochicchiare troppo a lungo; all’inizio bene, per rompere il ghiaccio o per avviare la macchina che bisogna far muovere, successivamente esige serietà. Questo Merkmal (tratto distintivo, ndr) è eredità di oltre un secolo di traversie per cui lo Stato tedesco è passato: la sua storia è senza ombra di dubbio molto antica ma per la nostra analisi accontentiamoci di partire dalla data cardine del 1871, anno in cui la “Germania” (tra virgolette, poiché parlare propriamente di Germania sarebbe incorretto nonché anacronistico) viene unificata come moderno stato nazionale col nome di Deutsches Kaiserreich (impero tedesco,conosciuto col nome di Secondo Reich, ndr) –volendo ben notare, lo stesso anno coincide con una ricorrenza della nostra storia nazionale: nel 1871 infatti la capitale del giovane Regno sabaudo viene ufficialmente spostata da Firenze a Roma come conseguenza della Breccia di Porta Pia, avvenuta appena una anno avanti–.

Sotto la guida attenta dei Kaiser guglielmini e del celeberrimo Reichskanzler Otto von Bismarck il Reich vide fiorire la propria economia ed incrementare il proprio peso politico sulla scena internazionale, prima europea e successivamente mondiale.

La stabilità inizia a terminare con l’abbandono della scena politica da parte di Bismarck e  terminerà nel 1918 alla fine della Grande guerra, quando Wilhelm II sarà costretto ad abdicare a causa della rivoluzione di quell’anno. La prima guerra mondiale presenta sulla scena uno Stato che si sente molto sicuro di se, tanto da dichiarare guerra all’Europa (anche se, ovviamente, il primo a dichiarare guerra fu l’Impero austro-ungarico). Ne esce provato lo sconfitto Reich, così segnato da, appunto, dissolversi sull’onda di moti popolari e lasciare spazio alla Weimarer Republik (repubblica di Weimar, ndr); una Repubblica che nasce già con gravi problemi d’affrontare: ingenti riparazioni di guerra, condizioni di pace insostenibili, svalutazione del Marco … una crisi che precede quella del Ventinove; senza contare ovviamente l’avvilimento morale nel vedere le celeberrime Alsazia e Lorena cedute alla rivale Francia. A qualche anno dalla conclusione della guerra ci si rende conto che le condizioni alle quali è stata sottoposto lo sconfitto Reich sono realmente insostenibili e vengono dunque allentante, generando un vero e proprio boom economico tedesco. Tutto sembra andare meglio di prima, finalmente si può riprendere a camminare –i Tedeschi non si danno mai per vinti!

Nel frattempo comincia a nascere ed a propagarsi un movimento politico-sociale chiamato NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, meglio conosciuto in seguito come partito nazista, ndr) guidato da un certo austriaco di nome Adolf Hitler: egli aveva compreso a pieno i sogni dei tedeschi e voleva aiutarli a realizzarli (un po’ un consulente dell’epoca, quelli che oggi nelle pubblicità assicurano di realizzare i nostri desideri più disparati) … peccato avesse degli interessi secondarii e delle idee non molto tranquille che gli balenassero per la testa. Ad ogni modo, in pochi anni la Republik diviene nuovamente Reich (questo sì, il Terzo, il famoso di cui ancora oggi si parla molto) e, contro il divieto imposto, forma nuovamente un esercito, un’aviazione ed una marina efficienti: i Tedeschi sono tornati e sono pronti a reclamare il loro Lebensraum (spazio vitale, ndr) mostrando al mondo la purezza della loro vera razza; chiaramente tutte idee derivanti da Hitler, oramai divenuto Führer (condottiero, guida, l’equivalente italiano di duce, ndr).

Ci siamo, una nuova guerra, questa volta totale: la Germania si sente nettamente superiore al resto d’Europa ed ancora prima della guerra compie annessioni ed invasioni di territorio cui nessuno Stato osi contrapporsi se non in minima parte l’Italia mussoliniana tentando di moderare la politica espansionistica dell’alleato.

Tutti i fronti sono aperti, l’Europa è dilaniata per sei anni da un conflitto che era stato definito Blitzkrieg (guerra-lampo, ndr) ed i Tedeschi resistono, così come faranno gli inglesi –di cui però non ci occuperemo ora–, tengono duro fino all’ultimo; ma la fine del conflitto è peggiore di quanto avessero mai potuto sognare: Berlino, la loro amata Berlin è devastata ed occupata, rasa al suolo. Per timori, lo stato viene diviso in quattro settori di controllo alleato, lo stesso vale per la capitale.

Questa soluzione porterà alle “due Germanie”, il blocco orientale, la DDR (Deutsche Demokratische Republik, repubblica democratica tedesca, ndr) a controllo russo più il settore, sempre orientale di Berlino; il blocco occidentale, la BRD (Bundesrepublik Deutschland, repubblica federale di Germania, dicitura più aderente al termine originale, ndr) più il restante settore di Berlino … una situazione avvilente: uno stesso popolo separato fino ad essere praticamente impossibilitato a comunicare da una parte all’altra del confine geografico e reale tracciato.

Tutto cambia una notte, come tante altre … no, la storia agli uomini dà sempre un senso di vertigine, definire “una notte come le altre” quella notte di ottobre del 1989 in cui Wessis ed Ossis (vezzeggiativi con cui vengono vicendevolmente chiamati “quelli dell’ovest” e “quelli dell’est”, ndr) si abbracciarono, cantarono, piansero e picconarono assieme quel maledetto muro che per quasi trent’anni li aveva divisi gli uni dagli altri.

Ed il loro spirito? Sarà morto, sepolto, disintegrato dalle deturpazioni apportate dagli occupanti. NO! Sono ancora carichi, pieni di spirito e di vitalità: in meno di due anni si preparano per riportarsi in carreggiata come stato unitario e nel 1991 si ripresentano al mondo come Tedeschi della Bundesrepublik Deutschland, non che la parte occidentale abbia assorbito l’orientale, il nome è lo stesso di prima ma è nuovo nella forma ed in quanto rappresenta.

E dopo vent’anni di cammino eccoli, quei Tedeschi separati e divisi a guidare l’economia europea, a fare da traino, da motrice, da cuore pulsante di un progetto che hanno voluto abbracciare accantonando vecchie idee di grandezza e mettendosi semplicemente al servizio di una grande causa comune, una causa chiamata Europa.

Uno Stato che abbia vissuto traversie simili non è difficile da trovare … ma uno che si sia ripreso così tante volte e sempre con la stessa se non ancora più rinnovata energia? Un popolo che abbia voluto continuare, portare avanti il proprio progetto di Unità nazionale in maniera così determinata è da ammirare ed apprezzare, non temere.

Per questo dico che non v’è nulla di male se è sovente la Germania a prendere iniziative a livello europeo; l’Europa unita e funzionale è un obiettivo da raggiungere: la Germania cerca di dare a questo processo il miglior sviluppo nel minor tempo possibile, evitando ad ogni modo qualsiasi forma di errore, falla od incrinatura si possa presentare lungo il cammino.

La Germania crede nell’Europa, vorrebbe semplicemente vedere che gli organi e gli uffici che formano l’assetto amministrativo della Comunità funzionino realmente e siano riconosciuti da ogni Stato e sentiti da ogni cittadino europeo.

Oramai i Tedeschi hanno abbandonato la parte del leone insonne, agiscono quando necessario a spronare gli animi; e quando si mettono in gioco sono capaci di risultati sensazionali!

***


Post scriptum: Spero che l’inserimento dei termini in tedesco non abbia appesantito la lettura del testo; se così è stato, sono dispiaciuto ma non era mia intenzione. L’intento era quello di portare a conoscenza un pubblico il più possibile vasto di termini e modo di pensare (ogni termine di qualsiasi lingua cela sempre una percentuale della mentalità della stessa) della società tedesca.

Vorrei precisare inoltre che tedesco come aggettivo sottintende [di Germania], per gli altri Stati che parlino il tedesco, qui sostantivo ad indicare la lingua, esistono i relativi aggettivi nazionali!

Germania: tedesco

Austria: austriaco

Svizzera: svizzero

Liechtenstein: del Liechtenstein / Liechtensteinense*

*Dicitura tratta da Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale Quinta giornata REI – Roma, 16 giugno 2008

Quello italiano è un popolo incredibile che, ritengo, non finirà mai di stupire; la frase può sembrare trita e ritrita, tante volte è stata adoperata… eppure ora credo proprio capiti a fagiolo. Sì, perché, come titola il numero de “l’Espresso” della scorsa settimana, mentre il mondo arabo brucia gli italiani preferiscono occuparsi dei millanta processi in cui B. è invischiato, dei “gieffini” e di Mistero per comprendere, ad esempio, come una persona possa vivere senza braccia … mentre nelle coste settentrionali dell’Africa la gente non riesce a vivere in quanto manchi il necessario per, almeno, sopravvivere.

Tornando all’incipit {sono desolato, ma non credo d’avere né le competenze né tanto meno il merito di poter parlare della situazione nei paesi nord-sahariani}, mentre mi allenavo per una delle specialità delle Olimpiadi casalinghe, vale a dire lo zapping ad ostacoli, mi sono imbattuto nel Telegiornale di TV2000 {canale ufficialmente di proprietà della CEI http://it.wikipedia.org/wiki/TV2000} proprio mentre veniva mandata in onda la rubrica di notizie dal mondo e mi ha colpito sentir parlare della Gameen Bank, la Banca dei Poveri. La notizia, realizzata nello stramaledettissimo formato “flash”, riferiva infatti che il fautore di questo grande progetto e presidente della stessa Muhammad Yunus è stato rimosso dal proprio incarico dalla Banca Centrale del Bengala. “Incredibile” mi sono detto, così ho ascoltato i nostri TG nazionali {quelli Rai per intenderci, Mediaset l’aborro} in cerca di conferme …. NULLA, tabula rasa di quanto detto poco prima! Incroyable! Così ho pensato di scrivere un piccolo post per questo blog per far capire cosa accade nel mondo che i nostri Telegiornali “di cortile” {come soglio chiamarli, poiché si occupano solo di questioni nazionali e solamente di questioni internazionali eclatanti} non riportano.

Vorrei parlare della Banca dei Poveri {per chi fosse interessato ad ulteriori informazioni sulla figura di Muhammad Yunus lascio qui comodo comodo il link di Wikipedia, santa invenzione!, anticipando solamente che si tratta del Premio Nobel per la Pace 2006 http://it.wikipedia.org/wiki/Muhammad_Yunus} che io stesso ho conosciuto in maniera del tutto fortuita sostenendo l’esame del First!

Tale organizzazione, ufficialmente Grameen Bank ma meglio nota con l’appellativo di Banca dei Poveri come già detto, è nata nel “lontano” 1976 per aiutare le popolazioni povere del Terzo mondo con microprestiti di cui le banche preesistenti non si curavano: generalmente i prestiti ammontano a cifre irrisorie che posso andare dai 2 ai 10 €, soldi che vengono impiegati per dare autonomia a piccole attività che a livello di villaggio rimarrebbero puramente “di sussistenza” senza uno sviluppo concreto. Come si può capire dalle cifre chieste in prestito, altri istituti di credito non se ne sono mai occupati poiché solamente le procedure burocratiche avrebbero fatto lievitare i costi; inoltre la Banca dei Poveri concede prestiti senza alcuna richiesta di garanzie, una manna per le fasce più povere delle popolazioni del Terzo mondo, in modo da evitare che i possibili contraenti dei prestiti finiscano nelle mani dell’usura.

La politica adottata da questa Banca è del tutto particolare in quanto {mi appoggio all’esauriente scaletta di Wikipedia}

  non si propongono come un ente burocratico a cui rivolgersi per ottenere un prestito, ma sono i funzionari della banca che si spostano di villaggio in villaggio per avvicinare i possibili clienti;

  sia per abbattere i costi sia per andare incontro ad una clientela in maggioranza analfabeta, la maggior parte della documentazione cartacea viene abolita ed i prestiti vengono concessi sulla fiducia e senza alcuna garanzia bancaria;

  per ridurre ulteriormente i costi e rendere più sicura la restituzione attraverso la mutua solidarietà, i crediti vengono normalmente concessi a piccoli gruppi di richiedenti che sono moralmente impegnati ad aiutarsi l’un l’altro in caso di difficoltà;

  nel suo giro per i villaggi l’impiegato incontra i clienti, riscuote le rate dei pagamenti e raccoglie gli eventuali risparmi, anche se di valore modestissimo;

  i prestiti, piccoli o grandi che siano, debbono essere restituiti dal momento che non si tratta di assistenzialismo, ma di un prestito dato da una banca ad un suo cliente;

  la restituzione avviene sempre in forma rateale, spesso settimanale, in modo che eventuali difficoltà del contraente sono subito evidenziate e danno modo alla banca di intervenire in tempo (ad esempio concedendo delle dilazioni).

{Da Wikipedia, alla voce Banca dei Poveri}

Il successo riscosso da tale sistema organizzativo è stato sorprendente, in quanto si è potuto notare un miglioramento delle condizioni di vita dei beneficiarii dei prestiti, un’insolvenza inferiore all 1% nella restituzione delle somme date in prestito e, con gli utili ricavati, è stato possibile pagare gli stipendii degli impiegati ed al contempo allargare la “zona di mercato”.

Insomma, un piccolo miracolo dei Paesi del Terzo mondo di cui pochi conoscono almeno l’esistenza.

Non intendo andare oltre dacché il mio intento era quello di far riflettere su quanto ci viene propinato ogni giorno dalla televisione, quali di queste nozioni siano necessarie e quali invece superflue… Forse dovremmo ribellarci a questo regime di chiusura o, peggio, dittatura mediatica e cercare nuovi sbocchi e nuovo ossigeno nel campo dell’informazione.

{Post scriptum: mi scuso per il frequente ricorso a Wikipedia ma piuttosto che fornire informazioni false o mal formulate ho preferito appoggiarmi ad una fonte esterna e, chiaramente, anche al sito stesso della Grameen Bank http://www.grameen-info.org/}

Foedericus.

Cari amici, il nostro “Bel Paese” non finirà mai di stupirci…. oltre al Presidente del Consiglio che è un costante motivo di vergogna e d’imbarazzo, ho avuto modo di sperimentarlo pure io nei miei viaggi all’estero; ben oltre la montagna di spazzatura mediatica che sommerge la vera informazione; scavalcando le facce di quei bigotti politici che amano il teatro a tal punto da inscenarlo ogni giorno per un pubblico che continuativamente lascia la sala inosservato perché gli attori hanno gli occhi riempiti dalla luce dei riflettori.

Ognuno di noi sperimenta nella vita, prima o poi, che i colpi più grandi che si possano infierire scaturiscono sempre da piccole questioni, sovente considerate minimali.

Martedì 1 Febbraio 2011, stavo ascoltando le notizie al TG2 quando improvvisamente viene trasmesso un servizio sulle “tasse camuffate e nascoste nel nostro Paese”; bene – mi sono detto – parleranno di imposte che ognuno di noi paga senza accorgersene, stile IVA e via discorrendo… ed in effetti è così, si parla di tasse varie,  già calcolate nel prezzo finale dei prodotti che acquistiamo, ogni tipo di prodotto rinvenibile sul mercato.

Improvvisamente compare la solita “scheda” riassuntiva dove vengono sintetizzate la parole proferite dalla voce del/la giornalista che ha realizzato il servizio; si parla di patrimoniali ed altre tasse, alcune di cui personalmente non conoscevo nemmeno l’esistenza; “alcune di queste risalgono perfino ai primi del Novecento” tuona la Voce, come se vi fosse motivo d’orgoglio specie in un sistema tributario in cui i soldi entrano ma non si sa mai da quale falla escano!

Scorrendo verso la fine del servizio, sorpresa!, una piccola “chicca” per gli spettatori {e non parlo certo di una piccola donna di nome Cristina!}: “in occorrenza dei 150 dell’Unità d’Italia anche l’esposizione del Tricolore costerà: 140 € di tassa per esporre i colori nazionali”. Se non m’è preso un infarto sul momento credo non mi verrà mai più {tiè!}. Capito a che punto sono arrivati?: tassano coloro che si sentono appartenenti allo Stato italiano!

Mi sono sentito preso in giro: 140 €, ecco quanto vale il mio sentirmi italiano, o meglio, quanto devo pagare per poter dire “sì, mi sento italiano”… così sono corso in camera mia, ho afferrato furiosamente la mia vecchia bandiera italiana {non l’avevo ancora esposta perché vecchia, scolorita e da rattoppare qua e là}, mi sono diligentemente messo all’opera con ago e filo, ho sistemato i buchi più pericolosi che avrebbero potuto determinare uno strappo della tela e sventolando il mio vessillo sono uscito sul balcone ed ho posto l’asta dove generalmente è sempre stata in occasione di mondiali o feste nazionali. Terminata l’operazione mi sono lasciato scappare un bel “ed ora vengano a prendermi”, quasi fossi un ladro… eppure determinato. Se verranno a prendermi sul serio per farmi pagare una multa o la tassa stessa dovranno prima trascinarmi in tribunale! Personalmente, non baratto le mie idee ed il mio “sentirmi italiano” per una tassa, per uno Stato che per colpa di qualche personaggio costantemente alla ricerca di denaro per risanare i conti pubblici per vanagloria  decida di tassare il mio appartenervi.

Festeggeremo il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia a breve, il 17 marzo, data così vicina eppure così lontana…. Sì, perché mentre magari alcuni italiani si preparano all’evento informandosi sulla storia della propria Nazione il Governo, a momenti, non sa ancora dove andare a parare in tema di manifestazioni: spostare, solo per il 2011, la festa delle Forze Armate a marzo? Organizzare un 2 giugno molto più grande per il 17 marzo e far passare in sordina l’Anniversario della Repubblica? Ed infine, dibattutissima questione, decretare per il 17 marzo un giorno di “vacanza” collettiva o mandare tutti al lavoro/ a scuola? Per di più, proprio quando i cavilli sembrano via via risolversi lentamente ecco le varie insurrezioni minoritarie: dapprima la Lega Nord che senza il proprio Federalismo {tanto sbandierato e voluto, di cui ora pare titubino persino gli stessi elettori} non vede ragione alcuna di festeggiare ed in un secondo momento con il moto di protesta del presidente della Provincia autonoma di Bolzano Luis Durnwalder il quale ha apertamente dichiarato di non voler prender parte ai festeggiamenti poiché gli altoatesini, nel lontano 1918 non vennero interpellati in merito a quale Stato volessero appartenere; per tal ragione non può costringere un popolo di “non italiani”  a festeggiare l’anniversario dell’Unità d’un Paese in cui questi non si identifichino.

Forse i festeggiamenti per questo Centocinquantenario potranno rivelarsi alquanto discutibili, l’importante, in fondo, è che ognuno di noi senta veramente quello spirito d’Unità nazionale che oltre centocinquant’anni fa portò giovani italiane ed italiani ad unirsi all’armata garibaldina ed a morire per un ideale di Patria che ancora oggi ritroviamo nel nostro Inno nazionale!

 

Foedericus

Il nostro amico Foedericus ci segnala un interessantissimo editoriale di Philippe Daverio, apparso sulla rivista “Artedossier“, nell’edizione di gennaio 2011. Da “Italia” a “questo Paese”, perché bisogna salvare la prima, da chi bisogna salvarla e chi lo deve fare.

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Numero 273, gennaio 2011

EDITORIALE di Philippe Daverio

Questo Paese… curioso modo di dire che viene usato dalla maggioranza schiacciante dei politici italiani, bipartisan, destra-sinistra-centro-sotto-sopra, quando parlano di casa loro. Curioso “modus dicendi”, centocinquant’anni dopo l’Unità d’Italia. Curiosissimo atteggiamento linguistico che sembra celare un fremito di pudore in personalità che tutto fanno nel tempo rimanente per apparire spudorate. 150 anni fa la penisola veniva appellata Italia, 100 anni fa veniva “gridata” Patria, 50 anni fa veniva concepita Nazione.  I genetliaci mutano innegabilmente i destini ontologici. Oggi l’Italia, la Nazione, cioè la Patria, viene chiamata “Questo Paese”. Va afferrata con le pinzette o con il mignolo sollevato? Va guardata con il distacco delle menti superiori?
È evidente che la dicitura “Questo Paese” pone il dichiarante fuori dalla questione esattamente come l’analista rimane fuori dalla provetta. È altrettanto chiaro, lo spiegano tutte le teorie della semantica, che l’unico modo per definire un oggetto non identificabile o dai contorni concettuali troppo confusi consiste nell’indicarlo non in base alla funzione, al carattere, al colore, al calore, alla materia che lo compone, ma semplicemente additandolo con il segnale “questo”.
Nacque la cosa un secolo e mezzo fa sulla scia dell’entusiasmo d’una scarna e determinata élite che s’era forgiata in una lunga e autentica guerra civile, dalla quale era uscita convinta e vittoriosa, capace di plasmare una generazione nuova pronta a tuffarsi nel turbinio della storia. Nacque lo Stato nuovo un po’ per energia e un po’ per caso, un po’ per bulimia d’un giovane monarca sabaudo che mai più si sarebbe aspettato una simile e grandiosa scorpacciata, un po’ per la sfortuna che sempre accompagnò il sogno repubblicano dei mazziniani. Dovette molto alla temeraria impresa di Garibaldi, senza la quale gli Stati preesistenti avrebbero trovato forme ben più diplomatiche di aggregazione. E così successe che prima Torino, poi Firenze e infine Roma ne diventassero le capitali.
Ma la burocrazia sardo-prealpina dei savoiardi era troppo fragile per sostituirsi ai sette Stati ben più gloriosi che l’avevano preceduta nell’amministrare un patrimonio colossale e una eredità culturale fra le più ricche e complicate del mondo conosciuto. Che cos’era la Torino delle “madamin” di fronte alla mistica bizantina della Serenissima di Venezia?  Era mai la Porta Palatina, certamente bella e romana, paragonabile alle antichità della Campania e della Sicilia o al museo che già da un secolo, e primo in Europa, celebrava le collezioni dei Farnese e dei Borbone, gli scavi di Ercolano e di Pompei? Cosa poteva insegnare palazzo Madama, per quanto inventato da Juvarra, ai Pitti o agli Uffizi di Firenze? Sarebbe stato come paragonare l’antipapa Felice V, al secolo Amedeo VIII il Comico, al suo contemporaneo Cosimo il Vecchio, o il castello di Racconigi con il Quirinale e Stupinigi con la reggia di Caserta. L’Italia Unita e sabauda non era in grado di recepire l’eredità colossale che si era trovata ad accorpare, non era forse in grado neppure di concepirla. Certo non fu in grado di custodirla se, già pochi anni dopo, il più clamoroso ritrovamento mai avvenuto di argenterie greco-latine fu trafugato a Parigi e venduto ai Rothschild per finire, fortunatamente, nelle sale del Louvre. Il ritrovamento era avvenuto in un luogo magico delle terre da caccia borboniche, Boscoreale. Boscoreale oggi è una discarica.
Pompei è una catastrofe biblica che evapora e si sgretola inesorabilmente sotto gli occhi del mondo civilizzato. Le rive del Brenta, una volta la più elegante passeggiata barcaiola della Terra, fra ville e chiese, si configurano oggi come disastro estetico. Le campagne di Brianza, quelle del Manzoni e dei suoi Promessi sposi, sono diventate una perversione ecologica. Il Belpaese è stato lordato, avvilito, massacrato. Le cascine che avevano retto i secoli stanno oggi crollando mentre crescono loro attorno palazzine meste e sgrammaticate.
È vero che l’Italia era povera ed è vero che la Nazione recente s’è fatta più ricca, e vero ch’era bella e s’è fatta oggi brutta. Ma è certo ormai che “Questo Paese” non ce la farà a invertire la tendenza o, meglio ancora, a portare la dialettica alla sua sintesi combinando ricchezza e bellezza.
Gli italiani non ce la possono fare a salvare “Questo Paese”, troppo lo disprezzano, troppo lo utilizzano come una fattore geografico inesauribile da sfruttare. Troppo lo considerano al pari d’una eredità naturale e fortunata, esattamente come il sole estivo in spiaggia. Solo che la spiaggia nel frattempo s’è affollata di ombrelloni, di radioline e di cartacce mentre l’orizzonte della duna soffre delle vicine palazzine. E il sole stesso probabilmente sta perdendo, per il buco nell’ozono, le sue virtù benefiche.
Gli italiani non vogliono salvare “Questo Paese”.
Ed è difficile sostenere che Pompei sia degli italiani. Non studiano forse molto di più il latino i tedeschi e i francesi? Non affrontano con maggiore passione la storia romana alcuni ricercatori di Yale o di Oxford? Pompei appartiene all’Occidente tutto. È solo occupata temporaneamente dallo Stato italiano. Andrebbe liberata, come si tentò di dare libertà al Kossovo. La civiltà d’Occidente deve chiedere che Pompei passi sotto la protezione dei Caschi blu dell’Onu. Come deve chiedere che l’enorme reggia costituita dal Palazzo ducale di Mantova torni, dopo il saccheggio del 1630, a essere, nella sua enorme complessità, luogo di aggregazione e di cultura.
Siamo poveri. Ormai. Così dice il ministro dei danari alla dama di fiori. Siamo poveri perché c’è la crisi. E i tempo di crisi, dice il ministro, «carmina non dant panem», figuriamoci se possono dare companatico gli scavi archeologici. «Erst kommt da Fressen, dann kommt die Moral», fa cantare Bertolt Brecht nell’Opera da tre soldi: prima rimpinzarsi la trippa e poi la morale. Oggi non ci sono soldi: noi spendiamo 2 miliardi di euro/anno per affari culturali mentre i tedeschi ne spendono 8 e i francesi addirittura 8,5. Non è vero. In Germania la spesa si distribuisce tutta sui Länder e lo Stato federale si occupa d’una sola Kunsthalle a Bonn. In Francia la spesa è accentrata attorno al sistema virtuoso della Réunion des Musées Nationaux. In Italia il Ministero spende 2 miliardi di euro, le fondazioni bancarie un altro miliardo e mezzo, gli assessorati degli enti territoriali un bel altro 3 miliardi. Quindi i danari ci sono, è la capacità di spenderli con intelligenza che manca. Il Ministero detto Mibac da anni non ha più bandito concorsi per assumere energie nuove. E negli ultimi anni ha perso per pensionamento personalità di primo rango come Antonio Paolucci e Nicola Spinosa, mentre ora sta per pensionare Martines. Ha tolto a Strinati la direzione dei musei romani. I nuovi avrebbero, qualora ci fossero, bisogno di tempi lunghi per raggiungere una competenza dove il sapere e il saper fare si devono necessariamente combinare attraverso la prassi. Il futuro si prevede come circo massimo del pressapochismo arrogante. I privati hanno inizialmente addentato il bene pubblico come un prosciutto da affettare, essendo la “res publica” considerata “res nullius”. Il crollo definitivo di ogni palestra di gladiatori appare inevitabile.
Per questo motivo reputo, reputiamo in molti ormai, che il formidabile patrimonio che l’Italia si trova inavvertitamente a custodire debba essere salvato da chi, nel mondo intero, vi trova una parte sostanziale delle proprie radici. SAVE ITALY è un appello che lanciamo agli uomini di buona volontà nell’ottica più cosmopolita che si voglia immaginare.
Sì, “Questo Paese” fa rabbrividire. L’Italia non ancora. L’Italia va salvata da “Questo Paese”.

Pubblichiamo oggi il nuovo articolo del nostro Foedericus, che ci parla della televisione, fonte d’ansia e strumento di controllo-influenza. Vi ricordiamo che potete trovare tutti gli articoli dei nostri collaboratori nell’omonima pagina, Collaboratori. Buona lettura!

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– Link: la tv italiana e la criminalità: http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/11/news/tv_ansia-7933773/

Chiedo scusa per l’introduzione in tedesco per i non germanofoni ma sono stufo di slogan, motti, frasi lanciate a mezz’aria unicamente in inglese; così mi sono preso la mia piccola rivincita personale. Ad ogni modo la frase significa ritorno all’origine ed è quanto, oramai si sarà compreso, tenta di fare la mia claudicante esperienza linguistica tramite queste inserzioni: tornare al senso primo delle parole per poterle capire e dunque utilizzare al meglio.

Girovagando per interminati spazii mentali mi sono ritrovato a pensare: “cosa abbiamo veramente da apprendere dalla televisione?”. Costantemente sotto accusa negli ultimi periodi, mai quanto la stampa chiaramente ma anch’essa al centro di giochi di palazzo, il mezzo d’intrattenimento più amato dagli italiani mi ha dato parecchio da riflettere.

Notizie flash, smozzicate, eclatanti ultim’ora sulle escort del Tal politico, agenzie meramente adoprate per smentire intrallazzi omosessuali del Tal dirigente della Detta azienda di spicco e via discorrendo … ma noi che abbiamo da imparare da tutto ciò?

“Tutto e niente”

tutto perché ritengo l’esperienza sia più appagante se miscellanea e niente poiché da tali comportamenti non v’è proprio nulla di utile da estrapolare.

Alors, quoi faire? “Torniamo all’origine”, ovvero fermiamoci, spegniamo quella scatola malefica e riflettiamoci attorno guardandola … Se il suo nome vi rimbomberà in testa per qualche istante forse potreste avere la mia stessa illuminazione: se analizziamo il termine televisione etimologicamente parlando notiamo come sia composto da due termini che ci schiudano, oltre all’origine del nome dell’oggetto, la risposta alla domanda posta poco sopra; ci può bastare anche solo la prima particella, il termine greco Τηλε che significa lontano… ecco cosa fare con la televisione, osservarla, guardarla ma sempre da lontano, non necessariamente con disprezzo né tanto meno con indifferenza.

A tal proposito mi sovviene l’incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, libro che ammetto di non aver ancora letto ma che ho regalato qualche giorno fa ad un caro amico; seduti al ristorante, mentre attendevamo d’ordinare, ha preso il libro ed ha iniziato a leggere ad alta voce le prime righe: in breve il romanzo comincia invitando il lettore a comunicare a chiunque lo circondi d’essere in procinto d’iniziare la lettura e di SPEGNERE LA TELEVISIONE … e nel caso in cui non si venga ascoltati il geniale autore propone d’urlare e rivendicare il proprio diritto alla lettura… ed era proprio quello ch’avrei fatto, urlare, se solo mi fossi lasciato trasportare oltre dalla lettura: tutt’attorno era un tripudio di televisori accesi con volumi esorbitanti atti a fornire “informazione” ai commensali (personalmente quando pranzo fuori casa con qualcuno gradisco conversarvi, non ascoltare la “scatola delle meraviglie”!).

Ecco, piuttosto diamoci alla lettura: dal romanzo al quotidiano, dal saggio al fumetto, nulla di tutto ciò nuoce gravemente né alla salute né tanto meno alle proprie conoscenze!

Quanto possiamo apprendere, dunque, è evitare tutto ciò che risulterebbe nocivo per noi, per la nostra salute sociale: impariamo a rispettarci, a non utilizzare i mezzi d’informazione per lanciare invettive infamanti contro qualcuno che non la pensi come noi, ad essere onesti, a comunicare apertamente e sinceramente. Come ho già detto, non sono qui per fare il moralista, mi garberebbe solo che la gente imparasse qualcosa di nuovo ed utile per ripulire questo mondo che sempre più si sta trasformando in un luogo dove chi ha un centesimo in più degli altri può permettersi di strafare.

In conclusione, spegniamo dunque la televisione e diveniamo noi stessi fautori della nostra realtà, non lasciandoci così manipolare da fattori esterni.

Le espressioni di Pasolini sono più che eloquenti circa il potere che ha la televisione di tenere in pugno la gente, potere ch’è andato accrescendosi dato che quella di cui si parla è la  televisione di cinquant’anni fa. Mio interesse non è quello di fare un’analisi a livello politico-propagandistico dell’utilizzo della televisione, bensì quello di far riflettere attorno quanto abbiamo concesso a questa scatola che da decenni oramai convive nelle nostre case: la facoltà di tenerci in pugno e di prendersi la nostra libertà!

Come ogni video, consiglio di non guardare le immagini, alto fattore di distrazione!, ma di ascoltare le parole di Pasolini fissando vacuamente ciò che ci circonda, magari a luce spenta.

“et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo”

Il notro Foedericus ci propone oggi un articolo che affronta il tema della libertà…a voi la lettura!

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“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda

Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni

La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione
.”

Giorgio Gaber, La libertà

Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”; certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva.

Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa.

Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà.

La libertà è un diritto innegabile

chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni.

“Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò
.”

e quindi l’invito della terza strofa:

Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

Foedericus.

Vi proponiamo un articolo, diciamo, filologico, di un nuovo collaboratore che speriamo diventi “assiduo”. Foedericus si è posto l’interrogativo di capire come mai certe parole importanti sono ormai abusate, o almeno sono viste come tali. Questo e altro nell’articolo che segue. Buona lettura!

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SE POLITICA DERIVA DA POLIS

“Democrazie” a confronto

Per prima cosa intendo ringraziare di cuore Albatro che mi ha fornito l’opportunità di scrivere un “pezzo” per questo blog.

Di certo non sono qui per fare scuola di pensiero, ce ne sono già abbastanza al mondo; quanto più mi piace fare in un discorso non è dare indicazioni/soluzioni precise (ne offre fin troppe la società dei consumi che ci ospita), bensì portare ad un affinarsi della mente dell’interlocutore e di conseguenza mia fornendo spunti di riflessione: questo è quanto vorrei fare con questo scritto.

La rabbia è molta, lo sconforto crescente, la credibilità oramai ci ha abbandonati: questa la politica italiana degli ultimi tempi; al posto di scagliare pietre da una parte e d’elevare agli onori degli altari dall’altra ritengo sia di gran lunga più proficua una ricerca filologica alle radici di termini di cui comunemente facciamo uso e talvolta abusiamo.

Il termine politica rimanda subito col pensiero alle poleis greche, sovente additate come massimo esempio di convivenza civile e vita cittadina fortemente sentita e partecipata; difatti esso deriva da polis (“città-stato”), a sottolineare il fatto che l’amministrazione della città dev’essere interesse degli stessi abitanti. Ma se vogliamo ben guardare esistono varie modalità secondo cui una comunità può decidere d’organizzarsi: democrazia diretta, rappresentativa, aristocrazia, oligarchia, monarchia, dittatura…gradirei prendere in analisi solamente la democrazia in quanto forma di governo che ci tange più prossimamente.

Sempre scavando a livello filologico, democrazia risulta significare “potere del popolo ovvero spettante ed esercitato da quest’ultimo. Adamantina balza agli occhi la stridente realtà: in qualsiasi stato che si regoli tramite democrazia non è previsto che siano i cittadini a decidere direttamente, quindi che democrazia è? Ecco la nascita della democrazia rappresentativa, inconcepibile nel mondo greco, più abbordabile per noi, sovente sfaticati semplificatori dell’era moderna.

L’antica democrazia greca prevedeva un’assegnazione di cariche del tutto particolare: queste venivano affidate agli abitanti della polis mediante sorteggio, un po’ come avviene nella modernità alle elementari per designare “il capoclasse”; tramite tale estrazione guidata puramente dal fato tutti potevano, democraticamente appunto, partecipare alla vita della propria città senza esclusioni o nonnismo di sorta. Chiaramente a partecipare alla vita  politica erano cittadini liberi (anche circa tale argomento vi sarebbe da discutere, magari in un altro pezzo!), non certo gli schiavi e men che meno le donne.

Altro aspetto curioso: tutti si sentivano tenuti a partecipare alle assemblee ed ai momenti di vita pubblica; impensabili erano sanzioni come la preclusione dalla possibilità di votare, che possiamo paragonare, ad esempio, al ritiro della tessera elettorale a coloro che non si fossero recati a votare per un determinato periodo di tempo nella neonata Repubblica Italiana.

Il voto presso i greci era la naturale espressione di un parere, ovvero quanto oggi sembra non essere più: andare a votare per molti di noi è quasi una condanna; spesso sento dire: “Cosa voto a fare? Tanto non so chi scegliere”; o peggio: “… tanto scelgono gli altri per me!”. Rinunciare così ad un proprio diritto e dovere (poiché votare è forse l’unico caso in cui tali accezioni si coniughino) significa fare a meno della propria condizione di uomini liberi, divenire schiavi … schiavi di chi?, mi si domanderà: schiavi di una politica che dal fare l’interesse del cittadino è passata a fare quello di UN cittadino; anzi, è erroneo dire “di una politica”, preferirei si dicesse di una classe politica, o di politici poiché la povera politica di per sé non ha fatto nulla di male, sono gli uomini che ne hanno abusato senza che questa se ne accorgesse!

Ogni qual volta si debba andare a votare ricordiamoci questo:

VOTARE = ESPRIMERE LA PROPRIA OPINIONE

pro memoria fondamentale, punto di partenza per un rinnovamento che la vita politica di questo Paese sta attendendo da anni; rinnovamento che non potrà avvenire se continueremo a ragionare come abbiamo fatto fino ad ora, lasciandoci trasportare da quel fastidioso atteggiamento del “lasciamo fare agli altri ché è troppo faticoso”.

Spero che questo minimo scritto abbia almeno fornito degli spunti su cui riflettere la notte prima di coricarsi, o per strada, sull’autobus, in famiglia, con gli amici (almeno quelli con cui si può discutere di tali materie).

Ricordate: IL POPOLO SIAMO NOI!

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione

(Costituzione Italiana, art. 1, comma 2)

Ringraziando ancora gli owners del blog per quest’opportunità,

Foedericus