Archivio per settembre, 2010

Sabato e domenica, a Cesena, si respirava il futuro. Futuro diverso, migliore, sereno. E’ stata la cosa che più mi ha colpito. Spesso ho detto e scritto su questo blog di paura per l’avvenire, di scarse speranze. Ma con Woodstock ho recuperato la fiducia. Rimangono i soliti problemi, ovviamente. Politici, sociali, economici. Ma in quell’ippodromo, su quei prati, c’erano 100 mila persone, soprattutto ragazzi ma anche bambini che giocavano e famiglie. Tutti ballavano, cantavano e ascoltavano musica. Ma erano lì per imparare, capire, sapere, informarsi, conoscere di rifiuti, riciclaggio, energia, acqua, sicurezza stradale, cementificazione e molto altro. Non della casa di Fini, ma della realtà. E questa è, nel suo piccolo, una rivoluzione.

I gruppi si susseguivano sul palco, suonando raggae, rap, rock, punk, metal, pop, di tutto. E tutti i presenti dietro a cantare e ascoltare. Poi, in mezzo, ecco un giornalista che ti parla della cementificazione selvaggia dell’Italia (Ferruccio Sansa), un premio nobel che ti ricorda quanto siano importanti i giovani e le manifestazioni come questa e si emoziona davanti alle migliaia di occhi che lo guardano (Dario Fo), un’imprenditrice che acquista la spazzatura dai cittadini per poi riciclarla completamente ed eliminando così del tutto il problema rifiuti.

Si è parlato di un mondo, di una società che negli altri paesi è già presente ma che da noi sembra lontanissima. Cambiare si può, ci sono tutte le possibilità per farlo. Ma per cambiare, prima di tutto dobbiamo cambiare la nostra mentalità, vedere le cose da un altro punto di vista.

La politica italiana deve smetterla di parlare di sè stessa, della casa di quello, delle puttane (pardon, escort) di quell’altro. Parlino di cose vere. Ma è inutile, ogni appello cade nel vuoto. Infatti, i giornali e i tg dedicano a Woodstock pochissimo spazio. Mezze pagine, notizie di pochi secondi e tutto il solito repertorio. E ovviamente tutti derubricano la manifestazione a esempio di volgarità, priva di idee e di proposte, puro populismo. Nessuno risponde nel merito. Nessuno dice “bravi, avete fatto una cosa così grande a rifiuti zero, facendo una raccolta differenziata totale”. Nessuno.

Eppure, a noi non interessa. Siamo tornati da Cesena con più speranza, con nuove prospettive. Perchè abbiamo visto che esiste una parte di Italia felice, con il sorriso. Contenta di differenziare tutto ciò che si usa, di non bere acqua in bottiglia ma solo quella dell’acquedotto (non erano in vendita bottigliette, ma c’erano cisterne di acqua pubblica a disposizione), di imparare cose nuove ed importanti. Un’Italia diversa, più consapevole e giovane. Che si sveglia, e che può veramente cambiare le cose.

La politica è questo. Dovrebbe essere questo. Felicità, voglia di mettersi in gioco e di migliorare la vita delle persone. Sabato e domenica ho visto tanta gente che pensava queste cose. Che, come me, vuole bene all’Italia, all’ambiente, al mondo. E l’atmosfera era meravigliosa, come di una comunità di desideri, d’intenti, di sogni. Che forse possono diventare realtà. La rivoluzione si può fare. Inizia dentro la nostra mente, poi si propaga. E forse è già iniziata.

Imbarazzo, vergogna e ilarità per l’intervento di Berlusconi.

Rabbia per il voto di fiducia dei finiani.

Soddisfazione per l’intervento di Di Pietro.

Noia per le analisi dei telegiornali.

Non cambia nulla, tutto è uguale. Per ora.

Ma c’è un’altra minaccia incombente, altrettanto pericolosa, rappresentata dall’uso deviato (e sostanzialmente distruttivo) che noi stessi facciamo di tale opportunità. Prendiamo questo blog, dove provo ad avviare discussioni critiche (e la critica – dice Michel Foucault – è lo smascheramento del Potere nei suoi discorsi di Verità e la Verità nelle sue pratiche di Potere). Fateci caso: non pochi interventi sono in perfetta sintonia con l’intento, seppure – ovviamente – sostenendo anche tesi molto divergenti e al limite contestative. Ed ecco che subito dopo irrompono post che non entrano nel merito ma tentano di bloccare la discussione con aggressioni verbali e sentenze apodittiche. E la comunicazione (che significa processo a due vie, come scambio di enunciati e feed back) viene sommersa da rumori antichi, tra l’insulto gratuito o il pernacchio plebeo; la brutta abitudine di storpiare i nomi (uso fascista, rilanciato per primo da Emilio Fede). Non è questione di bon ton, è molto di più: la dissipazione incivile della straordinaria possibilità di intendersi reciprocamente. Imbarbarimento delle pratiche discorsive spiegabile con il fatto che si sono perse le regole del dialogo e ormai ci siamo assuefatti allo spot come sostitutivo del ragionamento. E la garanzia di anonimato dello pseudonimo diventa il riparo da dove il cecchino può sparare indisturbato i suoi colpi proditori, un po’ vigliacchi.

di Pierfranco Pellizzetti,  da “Comunicazione non è overdose di rumore“, il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2010

Sei giorni fa (21 settembre) leggevo un articolo di Pierfranco Pellizzetti sul sito de Il Fatto Quotidiano, e ho trovato molto interessante la riflessione sul comunicare, sui ruoli e i vantaggi che si acquisiscono discutendo, presente nel paragrafo riportato qua sopra. Sono sul treno e sto tornando da Roma, dove ho frequentato uno stage (è francese, non inglese questo termine) formativo musicale, cioè tre giorni di intense lezioni di strumento, promozione, legislazione ed esibizione live. Ho incontrato moltissime persone, dai musicisti come me agli esperti nei vari settori: discografici, insegnanti e professionisti della promozione.

Ho portato via da questi tre giorni, tanti consigli utili, tante indicazioni ma soprattutto tantissime riflessioni: il ruolo di un musicista, come questo ruolo si debba continuamente pensare e ripensare, aggiornare, come ci si pone degli obiettivi in questo campo, che misure bisogna aver chiare per muoversi nel complesso mondo della musica…e avanti così.

Non credo che sarei stato così soddisfatto se mi fossi posto subito sulla “difensiva”, atteggiamento dettato dalla paura della critica, che troppo facilmente scambiamo per un attacco, anche gratuito. Credo che le critiche siano a tutti gli effetti degli attacchi, ma venir attaccati non vuol dire necessariamente perdere: la partita si gioca di volta in volta.

Tra gli aspetti se vogliamo caratteriali, che, a mio parere, bisognerebbe cercare di formare e mantenere, c’è il coraggio totale. È strano, ma lo associo anche all’umiltà: è coraggioso buttarsi in una situazione o in una discussione dove si potrà venire criticati, magari disillusi di una convinzione che si rivela quindi sbagliata. Nel mio caso, ho potuto rendermi conto durante le lezioni di strumento con l’insegnante di tastiere di quanto ancora mi manchi per essere il musicista che desidero. Ma sebbene in quel momento nella mia testa c’era un vortice di sensazioni anche contrapposte (compreso quindi il senso di inadeguatezza, ignoranza, vergogna), ne sono uscito felice e ricaricato. Ho sbagliato molti esercizi in quel momento, ho “sbeccato” moltissime note, ma nella discussione con l’insegnante e il mio compagno di lezione, ho capito cosa non funziona al meglio nel mio modo di suonare, ho intuito, intravisto una via per migliorarlo. Dall’altra parte ho anche notato che le cose che so fare meglio possono comunque essere migliorate, arricchite.

Il coraggio spavaldo di capire che anche gli altri possono dare consigli utili, idee nuove o punti di vista differenti, materiale che si può tranquillamente prendere e usare.

Il coraggio poi lo declinerei anche nell’atteggiamento quotidiano, nell’approccio alle cose: credo che le situazioni vadano aggredite, brutalmente. Ho capito forse un po’ di più che non bisogna assolutamente aver paura delle “musate“, cioè di sbattere la faccia nel provare, perché è solo e soltanto questo l’atteggiamento giusto per riuscire ad essere vincenti nelle situazioni e negli ambienti che davvero ci interessano. Tutti vogliono far bene le loro cose, ma tanti per la paura di non riuscire non ci provano neanche o non mantengono l’atteggiamento giusto: il risultato è lo stesso, salvo rare eccezioni, no?

Non voglio arrivare un giorno a pormi, su ogni cosa del mio passato, la domanda “…ma se avessi fatto in un’altra maniera?”, perché ho avuto troppa paura di prendere quello che volevo, di prenderlo al momento giusto, di prepararmi per tempo quando di tempo ne avevo più che a sufficienza.

In particolare mi è piaciuta la lezione dell’insegnante di “comunicazione e promozione”, naturalmente applicata alla musica, ma credo che si possa estendere ad ogni campo. Questi ci ha detto che se crediamo che il nostro progetto musicale sia valido, se vogliamo che vada avanti, non ci dobbiamo accontentare: bisogna avere la migliore presentazione al pubblico (ha guardato le pagine myspace dei gruppi presenti alla lezione dicendo che erano pessime), se vogliamo arrivare ad un personaggio importante, o che potrebbe essere importante per il nostro progetto, dobbiamo essere capaci di reperire le informazioni necessarie per contattarlo, comunicare con lui, addirittura incontrarlo.

Dovete lavorarci dalla mattina alle nove fino alla sera alle nove. Ma poi non andate a dormire: andate in sala prove e suonate.” – Il discorso è avere uno scopo, definito, preciso, difficile sicuramente, ma di certo molto più complicato se ci aggiungiamo l’incertezza di fondo che dà il poco coraggio e la chiusura mentale del non accettare consigli e critiche (che sono a volte la stessa cosa). Il coraggio credo che sia anche essere disposti a cambiare il proprio obiettivo, che non è sminuire sé stessi, ma cercare di migliorarsi.

Detto ciò, non mi scuso per l’eventuale “sconclusionatezza” di questo post, chi vuol criticarmi lo faccia pure, e troveremo assieme le ragioni. Anche se credo che avremmo di meglio da fare, discutere. Inoltre la citazione iniziale sembra mi sia servita unicamente come germe per iniziare a scrivere, ma su di essa ho altre riflessioni che preferisco trattare in un altro post.

Reduce dal Woodstock 5 Stelle, non sono ancora in grado di scrivere un post intero e compiuto, la stanchezza e l’eccitazione hanno la meglio. A breve (forse già oggi ma molto più probabilmente domani) verrà pubblicato un post sulla manifestazione di Cesena, svoltasi sabato e domenica. Saranno le impressioni mie e di Cassandra, nuova collaboratrice del blog, anche lei presente al Woodstock. Per ora pubblico l’intervento di ieri di Grillo, scritto appena Woodstock è finita. Buona lettura!!

Siamo vivi, vivi! Siamo usciti dalle catacombe. Siamo sopra e oltre. Sopra al nulla della politica, oltre questa civiltà basata sul denaro e sul consumismo. Sopra e oltre. Io ci credo, voi ci credete. La Rete ci ha unito. Possiamo cambiare la società, il mondo solo se lo vogliamo. Cosa abbiamo da perdere? Ognuno vale uno. Chiunque di voi può fare la differenza, essere un leader. Ognuno è un leader se riesce a trasformare i suoi sogni in realtà. Oggi, qui, ci sono migliaia di ragazze e di ragazzi. Siete l’avanguardia di una Nuova Italia, un posto più bello di questo, onesto, più leggero, senza odi, senza mafie. Voi avete il vostro destino nelle mani, non fatevi comprare, non perdetevi dietro a falsi valori. Quando vi ricorderete di Woodstock, magari tra trent’anni, e vi domanderete cosa avete fatto per voi e per gli altri, che cosa vi risponderete? Cosa direte ai vostri figli? Potrete guardarvi allo specchio?
Noi siamo vivi in un Paese di morti, di vecchi che occupano ogni spazio e si credono eterni, che si nutrono di potere e si sono fottuti la vita. Noi non siamo in vendita, non siamo merce, non crediamo a una società basata sul profitto, sul PIL. Vogliamo tutto perché non abbiamo più niente. Non l’aria pulita, non l’acqua pubblica, non una scuola di eccellenza, neppure la sicurezza di un lavoro e quando lavoriamo la sicurezza di non morire sul lavoro. Gli operai di oggi sono al fronte, sono loro i partigiani che combattono per dare da mangiare ai loro figli e muoiono come topi nelle cisterne.
L’Italia non è una democrazia, il cittadino non è rappresentato in Parlamento, non può votare il proprio candidato. Il Parlamento è eletto dalla mafia, dalla massoneria, dai vertici dei partiti, non dai cittadini. Sei persone decidono per tutto il Paese. L’Italia è un sistema capitalistico/mafioso con le pezze al culo, basato sul debito pubblico e sulle concessioni dello Stato. Ogni italiano è indebitato per 30.000 euro.Il debito aumenta di 100 miliardi di euro all’anno, stiamo andando verso il default. Quando i soldi contaminano la politica, la politica diventa merda, si fa politica per i soldi, non per servizio civile, come dovrebbe essere. Il MoVimento 5 Stelle non vuole i soldi, vuole poter volare alto, far volare le sue idee. Non ha ideologie, ma idee. I partiti prendono un miliardo di euro di finanziamenti elettorali nonostante un referendum che li abbia proibiti, nessuno si scandalizza, passano tutti all’incasso.
L’equazione è semplice senza soldi spariscono i partiti, sono fatti di soldi, di niente. Che dignità può avere un parlamentare che matura la pensione dopo due a anni e mezzo di fronte a milioni di persone che la pensione non la vedranno mai, che moriranno prima di andarci, che devono maturare 40 anni di contributi?
Ci sono voluti tre anni perché la proposta di legge Parlamento Pulito venisse discussa alla Commissione del Senato. Tre anni, trentasei mesi, più di mille giorni perché quattro senatori muovessero il culo per ascoltare 350.000 cittadini che al rimo Vday di Bologna chiedevano delle cose semplici, scontate in un Paese appena normale: nomina diretta del candidato, due legislature, nessuno condannato in via definitiva. Ci hanno definiti populisti, demagoghi, qualunquisti, violenti, volgari solo perché volevamo riaffermare il principio di democrazia in questo Paese. I partiti sono morti, zombie che camminano, strutture del passato, costruzioni artificiali. Sono diventati barriere tra le persone e lo Stato. Lo Stato siamo noi, non i partiti. E’ finito il tempo della delega in bianco. Il cittadino deve entrare nelle istituzioni come servizio civile per un periodo limitato e poi tornare alla propria attività. Non esiste il politico di professione, esistono i mantenuti a vita di professione come Chiamparino, Fassino, D’Alema, come Maroni, Bossi e tutta la sua grande famiglia, come Andreotti, il prescritto per mafia che ha detto di Ambrosoli, uno dei pochi eroi di questo Paese, “Se l’è cercata!”.
Noi siamo vivi e loro sono morti, in decomposizione, se li tocchiamo moriremo anche noi. Parlano di alleanze, di percentuali, di schieramenti, ma in realtà parlano sempre e soltanto di una cosa: come conservare il loro potere. Il MoVimento 5 Stelle farà alleanze, anche una al mese, una alla settimana, ma solo con i cittadini, con i movimenti per l’acqua pubblica, per una libera informazione non finanziata dallo Stato, contro la TAV in Val di Susa, contro le centrali nucleari, contro la base americana di Dal Molin. L’Italia ripudia la guerra e spende più per armamenti che per opere di pace. Persino Bono degli U2 ci ha mandato a fanculo, non manteniamo le promesse di aiuti umanitari e spendiamo 15 miliardi di euro per 131 caccia bombardieri dagli Stati Uniti, finanziamo la più grande industria bellica del mondo e chiudiamo le scuole.
Il MoVimento 5 Stelle ha preso mezzo milione di voti senza finanziamenti, senza media, giornali, televisioni, ogni voto è costato solo 8 centesimi al MoVimento, nulla ai cittadini, grazie alla Rete, al passaparola. La Rete è anticapitalista, la politica si fa con le idee, non con il capitale.
Il portale del Movimento 5 Stelle è il luogo di incontro, di creazione delle idee, della condivisione delle proposte. Chiunque non sia già iscritto a un partito può iscriversi gratis. Gli iscritti potranno creare una lista civica, proporre un candidato e in futuro modificare il programma in stile Wikipedia, collegarsi in una rete sociale come in Facebook, scambiarsi esperienze. Gli iscritti al MoVimento 5 Stelle sono circa 100.000. 100.000 persone informate e motivate possono trasformare il Paese. Noi siamo “Altri” non esistiamo nei sondaggi, ma siamo gli unici ad avere un Programma creato in Rete, questo Programma va stampato, diffuso, discusso. Il MoVimento coincide con le sue proposte, con le sua azioni civili, con il suo Programma. Chi dice che facciamo proteste e non proposte è in malafede o un imbecille inconsapevole.
“Ora che il governo della Repubblica è caduto nelle mani di pochi prepotenti … ma chi, chi se è un uomo, può ammettere che essi sprofondino nelle ricchezze, che sperperino nel costruire sul mare e nel livellare i monti e che a molti manchi il necessario per vivere? Che costruiscano case e case l’una appresso all’altra e che molti non abbiano un tetto per la propria famiglia? Per noi la miseria in casa, i debiti, triste l’oggi e incerto il domani. Che abbiamo, insomma, se non l’infelicità del vivere?”
Non l’ho detto io, non è l’Italia di oggi, sono le parole di Catilina pronunciate nel 64 prima di Cristo a Roma. L’Italia non è cambiata in duemila anni, per questo può cambiare oggi, solo i pazzi credono nell’impossibile e noi siamo i pazzi della democrazia. Il MoVimento 5 Stelle è nato il giorno di San Francesco, 4 ottobre del 2009, Francesco era chiamato il pazzo di Dio, noi siamo i pazzi della democrazia. Crediamo sia possibile un mondo basato sull’equità sociale, sulla solidarietà, sul rispetto dell’altro, sul diritto alla felicità, in cui chiunque può volare.
Vogliamo tutto e lo vogliamo subito. Cosa abbiamo da perdere? Perché non crederci? Perché non lottare per il nostro futuro? Non abbiamo altro. Non abbiamo scelta.
Ognuno deve impegnarsi, ognuno conta uno.
Sopra e avanti.

La realtà

Pubblicato: 24/09/2010 da Martino Ferrari in Aristofane, Informazione, Politica, Società, Televisione
Tag:

Mentre ad Annozero si parlava della casa di Fini, un operaio che rischia di perdere il lavoro e deve dare da mangiare alla sua famiglia dice quello che pensano milioni di persone.

Forse qualcosa si muove. Nel suo discorso di ieri all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Obama ha aperto alla creazione di uno stato palestinese. “Questa volta – ha detto il presidente Usa – dobbiamo cercare il meglio dentro noi stessi. Se lo facciamo, quando torneremo il prossimo anno, potremo avere un accordo che ci porterà un nuovo membro delle Nazioni Unite: uno stato indipendente di Palestina, che vive in pace con Israele”. Parole importanti, che vogliono aprire una nuova stagione di dialogo e di pace tra due popoli che sono in guerra da anni. Naturalmente, accanto all’apertura ad un indipendente stato palestinese, Obama ha anche affermato la ferma condanna di qualunque attacco nei confronti di Israele: “Deve essere a tutti chiaro che qualsiasi sforzo per scalfire la legittimità di Israele si scontrerà con l’opposizione incrollabile degli Stati Uniti”.

Quest’ultima affermazione era chiaramente rivolta all’intervento del presidente iraniano Ahmadinejad, che aveva definito il premier israeliano “killer professionista”, per il massacro di donne e bambini palestinesi. L’intervento del presidente iraniano non è certo servito a mantenere un clima disteso; egli ha infatti accusato “segmenti dell’amministrazione USA” di aver orchestrato gli attentati dell’11 settembre 2001 per invertire un periodo di crisi economica e salvare anche il regime sionista”. A queste parole, le delegazioni degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali hanno lasciato l’aula.

Le trattative sono quindi aperte. Tramite le parole del loro presidente, gli USA dimostrano di essere pronti ad impegnarsi affinché israeliani e palestinesi si accordino, così da permettere, finalmente, la nascita di uno stato nel quale la popolazione palestinese possa riconoscersi. La strada è ancora lunga e tortuosa, non c’è dubbio. I continui attacchi del mondo arabo ad Israele, le risposte militari di quest’ultima e il perenne clima di scontro certo non facilitano le cose.

Ma accanto a quanto riportato in precedenza, Obama ha pronunciato altre parole molto importanti, a proposito del nucleare iraniano.“L’Iran deve dimostrare al mondo l’intento pacifico del suo programma nucleare – ha detto Obama – Le porte della diplomazia restano aperte al dialogo. Ma Teheran deve dimostrare però il suo impegno”. Da parte sua, Ahmadinejad a risposto che l’Iran non punta all’arma nucleare, ricordando però che sia Israele che gli USA sono in possesso di tale ordigno, e che anche loro dovrebbero essere disarmati.

Da quando sono piccolo, ho sempre sentito e visto palestinesi, abitanti dei vicini paesi arabi, israeliani e americani attaccarsi (verbalmente e militarmente), stipulare accordi, violarli, attaccarsi di nuovo e così via. In un circolo vizioso indistruttibile. E’ la solita storia, Oriente contro Occidente. Due culture, due mondi opposti che faticano a comprendersi, a non guardarsi con sospetto, a diffidare l’uno dell’altro.

Questa sarà la volta buona? Obama (USA), Abu Mazen (Palestina) e Netanyahu (Israele) riusciranno dove i loro predecessori hanno fallito? E’ ovvio che ognuno dei tre, e quindi sia l’Oriente che l’Occidente, deve cedere su qualcosa. Ma questo è il terreno della diplomazia, e credo che i presidenti sopra citati siano molto più consapevoli di queste cose rispetto a tutti noi.

(Domani e domenica si terrà Woodstock 5 stelle. Partecipiamo numerosi! Per andare a Cesena è comodo un treno regionale che parte da Trento alle 9:10. Sono previste circa 70 mila persone. Qui tutte le informazioni)

L’America ha avuto la sua rivoluzione. La Francia ha avuto la sua rivoluzione. L’Italia mai.

Una rivoluzione è dovuta al sentimento di un popolo che lotta per la sua libertà, per la sua autodeterminazione per l’uguaglianza. Noi italiani abbiamo mai fatto una vera rivoluzione? Mai. Perchè? Perchè non siamo stati in grado di reagire, di imporci?

Per secoli sul nostro territorio si sono susseguiti imperi, popoli, etnie. Etruschi, greci, romani, longobardi, goti e moltissimi altri. Ognuno ha lasciato sul territorio e sugli abitanti il suo segno. Le culture si sono mescolate, le idee sono circolate e tutto è cambiato in continuazione. Modi diversissimi di vedere la vita e di guardare al mondo si sono compenetrati. E sono nati così alcuni tra i più grandi artisti, filosofi, scienziati e letterati del mondo. L’Italia ha prodotto e continua a produrre geni e genialità. Ma, nonostante tutto questo, gli italiani “normali” non si sono mai smarcati davvero dai poteri centrali. Dalla Chiesa, dall’impero, dai re, dai politici, dal fascismo.

Gli italiani hanno bisogno di qualcuno che pensi per loro, di qualcuno che guidi, mentre loro possono stare zitti e tranquilli. Qualcuno che risolva tutto. Questo diceva Mario Monicelli a Rai per una notte (vedi video sottostante), non molti mesi fa. Ed è assolutamente vero. Basta guardare al presente. Berlusconi vince certamente per il suo strapotere mediatico e per la pochezza dell’opposizione. Ma anche perchè si pone come leader in grado di soddisfare i bisogni delle persone. Lui dà questa percezione, anche se in realtà non gliene frega niente e fa quello che vuole.

La Chiesa è in Italia da sempre, e spadroneggia, comandando, influenzando, guadagnando. E mai nessuno le si oppone veramente. Pensate davvero che l’Italia sia uno Stato laico?

E allora, qual è la soluzione? Cosa fare mentre il Parlamento salva Cosentino negando al pm la possibilità di usare le intercettazioni a suo carico; mentre i lavoratori muoiono perchè le imprese non fanno rispettare, per risparmiare, le norme di sicurezza e allo stesso tempo il Ministro dell’Economia dice che la sicurezza sul lavoro è un lusso che non ci si può più permettere; mentre la corruzione dilaga e si mangia decine di miliardi di euro l’anno; mentre l’Italia perde il treno per il wi-fi libero e le energie rinnovabili. Mentre tutto questo accade, qual è la risposta?

Ormai non basta più niente. Le cose non cambiano, i giochi sono sempre gli stessi, le persone che tirano le fila delle nostre vite sono le medesime da anni. Ci vuole la rivoluzione. Rivoluzione pacifica e non violenta. Bisogna riprendersi i propri diritti, così maltrattati e affievoliti che nemmeno ci ricordiamo che li abbiamo. Dobbiamo essere in grado di alzare la testa, di urlare il nostro dissenso, di andare tra la gente e spiegare come stanno le cose, di interrompere il coma in cui versa il Paese. Dobbiamo rompere le palle, farci sentire, manifestare, partecipare, imparare, studiare, capire, pensare, conoscere, fischiare, contestare, informare. Dobbiamo riprenderci l’anima che ci hanno strappato, l’anima dello Stato. Dobbiamo riconquistare la possibilità di essere fieri di essere italiani, di rivendicare la nostra cultura. Dobbiamo farlo pacificamente, senza violenza. Una rivoluzione vera e propria, ma senza sangue.

E faticheremo, cadremo, ci rialzeremo. Proveranno a fermarci ma non ce la faranno. Siamo più furbi, siamo più forti. Ci fiaccheranno, proveranno a dividerci, a deviarci con propose allettanti. Ma non molleremo. Abbiamo bisogno di un futuro, di una prospettiva, e le cose come stanno non ce la possono dare. Abbiamo i sogni avvelenati e vogliamo ripulirli e salvarci.

“Rivoluzione, cambia qualche cosa!

Cancella il ghigno solito di questa ormai corrosa

mia stanca civiltà che si trascina.”

(F. Guccini)

Nessun cambiamento è indolore. Ma spesso un cambiamento è necessario. Rivoluzione, non c’è altra via.

“La canzone della rivoluzione”

Il mio amore è muto e parla solo coi corvi
profeti e il sindacato non lo ascoltano più
ragazzini attenti non battete le mani
col cianuro nei sogni la visione si sgonfia e cade giù

Mio fratello è nudo e vive sotto la neve
tu non credere ai giornali, sputa e tirati su
lo hanno programmato a dovere
le villette dei più furbi ci riflettono tanta luce

Avanti amore perduto in mare trent’anni fa
fatti canzone rivoluzione vamos a matar

Fallo contro i cori dei mercanti nel tempio
per i cristi assassinati senza una verità
per i vivi e i morti che santifica il caso
per il pene e la vagina e per quel che era sacro e non è più

Fallo perchè gli ultimi diventino i primi
per la tua coscienza lurida lavata a metà
per andrea di mestre o per maria di matera
per il pane e la gallina che non ci sono più

Avanti amore perduto in mare trent’anni fa
fatti canzone rivoluzione vamos a matar
fiorisci fiore col dito al cuore senza pietà
suona canzone rivoluzione vamos a matar

Sapete quanto mi piace prendere una frase, una citazione, e poi imbastire un discorso su di essa.

“Lo Stato italiano dovrebbe vergognarsi perché questa scuola non gli è costata un centesimo”

È di Oscar Lancini, ormai noto sindaco leghista della cittadina di Adro, nel bresciano. Già qualche mese fa era apparso nella cronaca nazionale per l’assurda questione della mensa scolastica, fatto che abbiamo trattato in un post apposito: “Nessuna buona azione rimarrà impunita“.

Stiamo parlando ora della scuola elementare di Adro, appena inaugurata e subito travolta dallo scandalo, non appena ci si è accorti che l’edificio era pieno zeppo di simboli legisti: il Sole delle Alpi. Lo scandalo nasce non solo dalla violazione della legge in materia di imparzialità e apoliticità della scuola, ma soprattutto dalle dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che ha salutato pochi giorni fa la nuova scuola come un modello da seguire. Inoltre la scuola è stata intitolata a Gianfranco Miglio, ideologo leghista, e lo zerbino all’ingresso dell’istituto non lascia spazio alle congetture: il Sole delle Alpi è di un bel verde Lega.

Pochi giorni dopo naturalmente è giunta la smentita, o meglio, l’ordine di rimuovere tutti quei simboli dall’edificio (precedentemente pare che si fosse accontentata delle spiegazioni del sindaco, che indicava il Sole come un simbolo tradizionale di Adro). Ad oggi ancora nulla è stato fatto, anzi, Lancini non sembra affatto intenzionato ad agire in questo senso.

“Prima di essere sindaco di Adro sono un militante della Lega. Sto aspettando che il mio segretario federale mi dica che cosa devo fare. Dopodiché io obbedisco”

Permesso, scusate, sono la Ragione, quella cosa che sta nella testa degli uomini…ehm, sì, vorrei segnalare che c’è un’incongruenza nella frase sopra riportata: anzi due, magari tre. Prima di essere sindaco, Lancini è un militante della Lega. Quindi questo gli concederebbe la facoltà di riempire una scuola di simboli del suo partito. Naturalmente le minoranze devono accettare di essere zittite e umiliate. Chi è questo segretario federale? Devo ancora consultare un giurista, ma non credo che questa figura istituzionale esista, ma, qualora fuori dal sistema Stato questo figuro chiamato “segretario federale” ci sia davvero, per quale motivo un sindaco dovrebbe fargli riferimento? Dopodiché, obbedirgli?

Che cosa viene prima? Per un sindaco, chiamato a governare una città, credo, il bene della città stessa. Quali ovvietà scriviamo oggi. Qua però vien prima il partito a quanto pare. È in 1984 che vediamo il partito prima di tutto, la fedeltà al Grande Fratello, prima di tutto. Tutti sono compagni, tutti obbediscono al partito e sono formati nella cultura/ideologia del partito. I simboli verdi della scuola di Adro non hanno radici storiche, non più. A questo punto potremmo giustificare le svastiche o i fasci littori, in quanto fanno parte delle icone e dei simboli di culture molto antiche.

Cosa viene prima? I soldi o la dignità? I soldi o la legalità? Per legge non ci possono essere simboli politici nei luoghi di istruzione: il Sole delle Alpi in verde potrà avere le radici più profonde, ma negli ultimi vent’anni ha acquisito un importante valore politico. Scriviamo ovvietà? Lo stesso Lancini si è autosmentito, dichiarandosi prima di tutto leghista: aveva escluso la scelta per la valenza politica del simbolo!

Che dignità poi c’è per noi Italiani nell’accettare tutto questo solo perché questa scuola “non è costata un centesimo” allo Stato Italiano? Quindi vengono prima i soldi, prima di tutto! Se è stata edificata con un grande contributo della comunità, non parliamo forse della donazione di cittadini italiani? Bollare tutta questa operazione come folclore poi è ancora più svilente…

Il cittadino può “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (Articolo 21 della Costituzione), ma sappiamo che liberamente concerne l’ambito legale, cioè la libertà di esprimere la propria idea non si può avvalere dei modi che sono vietati dalla legge. Un leghista è libero di porre il suo simbolo in molti luoghi, ma non in una scuola.

Questo diciassettesimo collage è un articolo del 7 settembre di Michela Murgia, vincitrice del Premio Campiello 2010, e ci racconta in prima persona cosa ha visto, cosa ha pensato e pensa del “numero del decollétè” performato dal mago Vespa alla cerimonia di premiazione del suddetto concorso.

È un articolo interessante per il punto di vista di una donna rispetto al trattamento che il sesso femminile troppo spesso si vede riservato, ma anche per la riflessione sull’importanza parole, nella parte finale del pezzo, concluso con una bellissima frase:

“(…guardare alle) parole come cose importanti, come veicoli di senso, pesarle per quello che trasportano e rispettarle o temerle per quello che costruiscono”

***

IL SENSO DI VESPA PER LE TETTE

Al premio Campiello il corpo di Sivlia Avallone diventa di pubblico demanio

Se siete donne o uomini non ha importanza, perché il gioco di ruolo che vi propongo si può fare comunque con profitto. Provate a immaginare di essere un giovane scrittore talentuoso e di aver scritto un bel libro. Il vostro valore letterario è tale che vi assegnano addirittura un premio Campiello. Immaginate di mettervi un bellissimo smoking per andarlo a ritirare e di sedervi composto in prima fila insieme alla vostra compagna nella cornice strepitosa del teatro della Fenice, gremita da centinaia di persone eleganti.

Per ultimo immaginate che a quel punto la presentatrice vi chiami a salire sul palco per premiarvi e, mentre voi emozionatissimo fate le scale dando ancora le spalle alla platea, costei vi tenda la mano esclamando giuliva: “Ecco il vincitore, e prego la regia di inquadrargli la strepitosa patta dei calzoni”. In quel momento, dopo quella frase volgare, voi dovrete voltarvi e offrirvi al pubblico con la consapevolezza che quelle centinaia di persone punteranno i loro occhi ormai avidi e curiosi all’altezza del vostro inguine, del tutto dimentiche che il motivo per cui vi trovate su quel palco nulla c’entra con la patta dei vostri calzoni. Se questa scena vi sembra surreale, è perché lo è, ma è esattamente questo che Bruno Vespa ha fatto a Silvia Avallone sabato scorso al premio Campiello.

Un corpo a disposizione

Sui giornali la sua scivolata poco signorile è stata rubricata con definizioni come “pesante apprezzamento” o “complimento di troppo”, come a dire che “sei bellissima” e “inquadratele il decollétè” sono due frasi che esprimono lo stesso concetto. Non è così, è una menzogna: Vespa non ha fatto un complimento alla bellezza di Silvia, perché invitare un cameraman a inquadrarle la scollatura non è un modo per dire che quello che c’è dentro è apprezzabile: è prima di tutto un modo per dire che è fruibile, che è a disposizione di chiunque voglia guardarselo, sia che si trovi seduto nella poltrona di velluto del teatro della Fenice sia che si trovi sdraiato davanti alla televisione sul salotto di casa sua. Fatta salva la sensibilità di Silvia Avallone, in un caso come questo non è solo la persona che subisce l’esposizione a stabilire se si tratti o meno di una cosa offensiva: l’uso del corpo femminile come pubblico demanio, come pascolo aperto allo sguardo gratuito di chiunque, è un atto offensivo verso tutti e tutte per il contenuto di violenza che si porta dietro.

La violenza non è solo nello schiaffo, è soprattutto nel pensiero di sopraffazione, nell’uso di un potere per disporre dell’altro a proprio gusto, nel zittire la sua lamentela invocando il senso dell’umorismo, nel cercare di far passare per complimento la riduzione di una persona intera al suo corpo o a parte di esso, piegata a decoro televisivamente strumentale. Ho letto anche che quello che ha fatto Vespa sarebbe stato scorretto perché Silvia Avallone è una scrittrice brava e intelligente e non stava bene spostare l’attenzione del pubblico sulla sua avvenenza fisica.

Io non sono sicura che la gravità di quella frase stia solo nello svilimento dell’indubbio valore intellettuale di Silvia. Sono anzi convinta del contrario: quello che Vespa ha fatto sarebbe stato scorretto anche e soprattutto se avesse avuto accanto una donna sciocca e senza nessun altro talento che quello contenuto nella sua scollatura. Sbaglieremmo a legittimare l’idea che una donna intelligente abbia più diritto al rispetto di una donna stupida: daremmo licenza a chiunque di considerarla a sua disposizione o a quella invasiva della telecamera, che simbolicamente è la stessa cosa.

L’importanza delle parole

Impossibile non vedere le analogie tra la naturalezza con cui Vespa ha domandato l’ostensione fisica della Avallone all’occhio della telecamera e le frasi di Silvio Berlusconi a Rosy Bindi, in quel caso giustamente rintuzzate con la negazione di una disponibilità, che non va però intesa nel becero senso di mancanza di compiacenza verso la sedicente galanteria, ma in quello ben più profondo di esercizio del diritto di non essere usate: né per compiacere il maschio dominante, né per decorare un palco, né per fare audience televisiva. Chi rivendica questo diritto non è una beghina né un perbenista, ma una persona che si rifiuta di considerare normale, spiritosa o addirittura lusinghiera la riduzione di un altro a oggetto d’uso a servizio di un potere. Al servizio di questa mentalità Bruno Vespa non è l’oggetto principe della critica, anzi direi che è l’ultimo arrivato, oltre che l’ennesima occasione per fare il mio mestiere: guardare alle parole come cose importanti, come veicoli di senso, pesarle per quello che trasportano e rispettarle o temerle per quello che costruiscono.

Di Michela Murgia

Vincitrice del Premio Campiello 2010. Era in sala al momento del “numero” di Vespa.

(Michela Murgia)

Da Il Fatto Quotidiano del 7 settembre 2010

Pubblichiamo oggi alcuni stralci dell’intervista (apparsa sul Fatto di giovedì 16 settembre) di Marco Travaglio a Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Consulta, famoso ed affermato giurista, fatta al teatro Carignano di Torino, dal titolo “La guardia è stanca”. Zagrebelsky parla di valore, difesa e significato della Costituzione, del federalismo, della legge elettorale, del cambiamento del significato delle parole e di molto altro. Un’intervista da leggere per capire il pieno significato della nostra Carta costituzionale e lo scempio che oggi se ne sta facendo. Il post è molto lungo, ma vale la pena perdere un po’ di tempo per leggerlo.


La prima domanda che viene da fare a un ex presidente della Corte costituzionale che si ostina a difendere la Costituzione è: qual è lo stato di salute della Carta oggi? L’impressione è che molti temano che la Costituzione venga cambiata, sconvolta, modificata, ma che il peggio sia già avvenuto, che la Costituzione sia già stata cambiata senza nemmeno toccarla, svuotata dall’interno lasciando soltanto la corteccia. Infatti si dà per scontato che, su quella scritta, prevalga una non meglio precisata “Costituzione materiale”…
Questo discorso che fai sulla Costituzione si potrebbe fare sulla democrazia più in generale. Costituzione e democrazia sono degli involucri, bisogna vedere cosa c’è dentro: è più importante quello che c’è fuori o quello che c’è dentro? Questa è una domanda che ti farei socraticamente. Volendo usare un’altra immagine: sono più importanti le regole formali o gli uomini che fanno funzionare le regole? È una domanda antica: sono più importanti le istituzioni o la qualità degli uomini? Normalmente si dice: le istituzioni sono molto importanti, ma non c’è nessuna buona istituzione o Costituzione che può dare dei buoni risultati, se è in mano a un personale politico di infimo livello. Viceversa una mediocre Costituzione può dare luogo a risultati accettabili se è manipolata, usata da un personale politico a sua volta eticamente accettabile. Dico eticamente perché bisogna avere il coraggio di ripristinare alcune categorie, alcune parole: quando si dice “eticamente” a proposito della politica, non si fa del moralismo, si indica semplicemente la necessità che coloro che occupano posizioni pubbliche siano consapevoli e coerenti con l’ethos che quella funzione comporta. In generale, la Costituzione stabilisce, prevede, auspica che coloro che occupano posizioni pubbliche adempiano alle relative funzioni “con disciplina e onore”: che parole desuete, sembrano quasi delle prese in giro…

È l’articolo 54, ma nessuno lo conosce.

Infatti, in tanti anni di esami all’università, credo di non averlo mai indicato come oggetto di una possibile domanda. Onore e disciplina: purtroppo sono quelle norme che non hanno sanzione, che indicano addirittura il presupposto di una decente vita pubblica prima di tutto, prima ancora che democratica. Quindi, tornando a noi, allo stato di salute della Costituzione: dal punto di vista formale, la nostra Costituzione dimostra di essere fortissima, sono più di 30 anni che ci si arrabatta per modificarla nelle parti essenziali, senza che nessuno sia mai riuscito a stravolgerla dal punto di vista formale. Ma dal punto di vista sostanziale naturalmente le cose stanno diversamente. Per cui sono dell’idea che oggi non si tratti tanto di difendere la Costituzione, ma di ripristinarla: è un compito molto più impegnativo perché oggi il 90 per cento delle nostre forze politiche in Parlamento vogliono cambiarla. Però non basta volerla cambiare: bisognerebbe essere d’accordo sul come cambiarla, e lì si crea il blocco. Questo le dà una grande forza: la Costituzione come documento formale è importante che resti, perché è pur sempre un punto di riferimento ideale, in base al quale si possono condurre determinate battaglie civili. Ma l’oggetto delle battaglie non è il testo costituzionale, ma la realtà costituzionale, l’ethos, i princìpi che la Costituzione indica. Il punto principale è la concezione della democrazia. Si è realizzata, nei fatti, una trasformazione che definirei proprio un rovesciamento della concezione della democrazia. Prendiamo la legge elettorale come sintomo: essa è l’espressione più evidente del rovesciamento del principio di sovranità. La sovranità in una democrazia comporta prima di tutto che i rappresentati eleggano i propri rappresentanti. Ma, con la legge elettorale attuale, per i motivi che tutti conosciamo, i capi-partito nominano i loro rappresentanti. E il corpo elettorale è lì a fare che? A distribuire le quote dell’azionariato politico dei vertici dei partiti.

Forse un punto debole della Costituzione, o almeno di chi dovrebbe garantirne i principi fondamentali, è che assistiamo continuamente alla coesistenza di una Costituzione che dice una cosa e di leggi che dicono esattamente il contrario, consentendo una serie di prassi che sono totalmente antitetiche rispetto a quello che prevede la Costituzione. Allora una persona semplice si domanda: ma com’è possibile che non sia intervenuto nessuno a bloccare o a cancellare o a fulminare una legge elettorale così palesemente incostituzionale? Manca qualche valvola di salvaguardia, nel sistema costituzionale?
Qui si entra in una discussione molto tecnica. Che questa legge sia palesemente incostituzionale non saprei dirlo: qual è la norma che viene violata? Bisognerebbe tenere distinto il giudizio di costituzionalità freddo, scientifico, giuridico. Dunque qual è la norma che viene violata dall’attuale legge elettorale? Sono decenni che si dice, per esempio, che le preferenze sono una cosa negativa, perché quando c’erano le preferenze plurime si facevano “cordate” molto permeabili agli interessi mafiosi. Poi si è passati alla preferenza unica, che però ha scatenato la lotta di tutti contro tutti: l’elezione è diventata molto costosa e questo ha favorito in linea di principio i gruppi di potere che disponevano di risorse economiche. Dunque l’abolizione delle preferenze e il premio di maggioranza non appaiono incostituzionali, anche perché l’abolizione delle preferenze non esclude che i partiti democraticamente si aprano alla società civile con qualche meccanismo che dia voce ai cittadini-elettori facendoli sentire padroni del meccanismo e non semplicemente clienti che vanno a votare su opzioni già prese da altri. Invece non è stato così, e questo rovesciamento dei rapporti fra cittadino ed eletto ha fatto scadere la qualità della nostra rappresentanza: quando sono i vertici che scelgono i propri rappresentanti, privilegeranno gente di fiducia, uomini e donne di fatica. E questo con la democrazia non ha molto a che vedere.

Nessuno se lo ricorda più, ma il Parlamento dovrebbe essere il primo organo di controllo del governo: abbiamo perso proprio l’essenza del Parlamento, considerato ormai come un luogo dove si mette il timbro su decisioni prese altrove. Che poi sono perlopiù leggi per sistemare problemi personali o di poche combriccole…
Abbiamo tutti, o molti, certamente noi due, la sensazione che questa legge elettorale sia uno stravolgimento dei principi della democrazia. Ma non è facile individuare la norma specifica che viene violata. È tutta una concezione che viene messa in crisi. Lo stesso vale per le leggi ad personam: sono tutte formulate in termini generali. Se si fa uno scudo penale per l’attuale presidente del Consiglio, si fa una legge che riguarda il presidente del Consiglio, cioè la carica e non la persona. Se si fa il “processo breve”, si dice che è nell’interesse della generalità dei cittadini avere processi brevi (anche se poi “processo breve” è un eufemismo: questo è il processo morto…). Tutte queste leggi – e non potrebbe essere diversamente – si presentano formalmente in termini generali, perché è chiaro che, se si facesse una legge che esplicitamente si riferisce a Tizio o Caio, con il nome e il cognome, non avrebbe alcuna possibilità di passare… Sarebbe uno sconcio tale che gli organi di controllo interverrebbero. Tutti sanno che certe leggi si fanno per Tizio o Caio, il nome c’è eccome: la sostanza è individuale, particolare, ma la forma è generale. E come fa la Corte costituzionale a bocciarle? Il fatto che ci siano delle leggi che noi tutti consideriamo prodotte da una mentalità malata ma che non violano specificamente una norma costituzionale precisa, non vuol dire affatto che queste leggi vadano bene: vuol dire che violano addirittura i presupposti, quei principi che sono così fondamentali che non c’è neanche bisogno di esplicitarli.

La “guardia stanca”, se non erro, è il popolo russo che protesta con Lenin perché la rivoluzione tarda a partire. Oggi forse possiamo leggere questo motto come la stanchezza di una parte della società civile nei confronti delle vergogne che ci vengono ogni giorno rovesciate addosso. Ma la guardia stanca potrebbe anche essere la metafora di tutti quegli organi di controllo che dovrebbero montare la guardia per controllare il potere, ma in questi anni sono stati fiaccati, perforati, neutralizzati, o magari semplicemente si sono stancati e non esercitano più il loro dovere di vigilanza…
Sì, potrebbe anche essere. In che senso si è stanchi? Si è stanchi di aspettare e quindi è una stanchezza che prelude a un’azione, a un rinnovamento? Oppure la guardia è stanca perché è esausta? Credo che il nostro Paese si trovi un po’ su questo crinale: in certi momenti o in certi ambienti si può cogliere una stanchezza che vorrebbe anche trovare le forme di aggregazione per reagire, ma dall’altra parte c’è la stanchezza intesa come esaurimento, come rinuncia, come pessimismo. C’è un punto su cui credo che le forze politiche dovrebbero fare una riflessione: quelle che, almeno a parole, dichiarano che la situazione attuale non corrisponde alle loro aspirazioni, cioè l’opposizione. L’Italia è l’unico Paese in cui le forze di governo perdono consensi e le forze di opposizione non li guadagnano: questo dicono i sondaggi. Non ti pare che questo sia un sintomo di stanchezza, purtroppo nel secondo senso? La gente che non si riconosce più nelle forze di maggioranza non trova un approdo in altre formazioni, in altri schieramenti, questo forse è il segno dello scoramento, che sfocia nell’astensione. Io credo che sia vero che molti elettori votano per le forze di opposizione perché la maggioranza è questa. Il giorno in cui non ci fosse più questa maggioranza con questi capi, anzi con questo capo riconosciuto, non sarebbe un grande risultato per l’opposizione.

Forse è per questo che da anni il grosso dell’opposizione sostiene così amorevolmente il presidente del Consiglio: se non ci fosse più lui, nessuno li voterebbe più.
Conosciamo tanta gente che dice: questa è l’ultima volta che vado a votare. Poi ci va ancora, per cercare di evitare o limitare il peggio. Ma il giorno in cui non ci fosse più quel peggio lì, sarebbe un tracollo anche per l’opposizione. Quindi ci troviamo in questa situazione paradossale: la sconfitta della maggioranza non si trasforma in vittoria dell’opposizione. Invece ogni democrazia ben funzionante si regge su questa legge: se perde la maggioranza, vince l’opposizione. Quando questa legge viene smentita dai fatti è a rischio la democrazia, perché subentra il distacco dei cittadini. Quindi non sarei tanto soddisfatto, se fossi un politico dell’opposizione, dinanzi al declino di consensi della maggioranza, perché mi domanderei: dove vanno questi voti? E se non vanno all’opposizione, c’è da fare una riflessione molto profonda.

La Televisione Unica del Padrone Unico ha imposto al Paese una serie di parole e di slogan malati: per esempio, quello secondo cui “le riforme sono buone purché condivise”. Non ho mai capito per quale motivo una riforma dovrebbe essere buona solo se la condividono in tanti: se è una porcheria ed è condivisa da tanti, peggio mi sento; una porcheria rimane una porcheria anche se la votano tutti; eppure ci viene ogni giorno spiegato che, se le riforme sono condivise da tanti o da tutti, allora vanno bene a prescindere. Tra le riforme che siamo quasi obbligati a condividere, per esempio, c’è quella del federalismo fiscale che nessuno sa esattamente cosa sia: qualcuno lo intende come un’anticamera del separatismo, altri come la panacea che dovrebbe liberarci dalla burocrazia. Ma è ancora possibile dire “io sono contro il federalismo” o si rischia di bestemmiare in chiesa?
Tu vorresti una risposta secca, ma hai posto due domande e due problemi: la corruzione delle parole e la questione del federalismo. Primo: come cittadini politicamente responsabili che non godiamo nel vedere la situazione stupefacente che si è creata, ma avvertiamo l’obbligo di fare qualcosa per migliorarla, per bonificarla, sappiamo che uno dei punti principali del degrado italiano è la corruzione delle parole. Per esempio, c’è un’espressione che è largamente utilizzata dagli uomini di governo, ma anche dell’opposizione: “Non abbiamo messo le mani nelle tasche degli italiani”. Pare sempre una trovata brillante. A parte la veridicità o meno del contenuto, questa espressione ha avuto un grande successo, purtroppo, a destra come a sinistra. Ora, io la trovo di una volgarità senza pari, perché sottintende – questo è il messaggio subliminale – l’idea che uno Stato che chiede ai cittadini di partecipare alle spese pubbliche sia un ladro sempre e comunque. Quindi, se lo Stato è ladro, ben si giustifica l’evasione fiscale. E il cerchio si chiude. Mettere le mani in tasca? Ma in un paese civile tutti i cittadini dovrebbero essere chiamati responsabilmente a far fronte, secondo criteri di giustizia, alle esigenze della collettività. La Costituzione prevede sistemi fiscali progressivi: nessuno se ne ricorda più, ma “imposte progressive” vuole dire che chi più ha più deve contribuire rispetto a chi meno ha. Applichiamo questo semplice schema mentale alla manovra finanziaria in corso, e ci accorgiamo che dovrebbe portare a porre dei problemi che nessuno osa porre: l’imposta patrimoniale sulle grandi fortune, la tassazione delle speculazioni finanziarie…

Anziché ai ladri, questa manovra mette le mani in tasca alle guardie: poliziotti, magistrati e cittadini onesti…
Purtroppo dobbiamo pensare a ricostruire la nostra convivenza sulla base di parole non malate, perché la corruzione di ogni regime politico è accompagnata dalla corruzione delle parole. C’è un libro interessantissimo pubblicato da Mondadori qualche anno fa e da poco ripubblicato in versione più ampia: l’autore è Victor Klemperer, un filologo ebreo tedesco, marito di una donna ariana (uso queste categorie che non ci sono proprie), che ha seguito la trasformazione della lingua sotto il Terzo Reich. Uno studio interessantissimo su come si avvelenano gli animi modificando il senso delle parole o inventandone di parole. Ora è uscito da Giuntina un seguito: LTI. La lingua del Terzo Reich. Bisognerebbe leggerlo, per capire il veleno che le parole possono contenere. Tu ora dicevi “riforme condivise”. È uno slogan che presenta un aspetto malato: se siamo tutti d’accordo, questa sarebbe la riprova che la cosa che stiamo facendo è buona. Ma in una democrazia liberale il non essere d’accordo è il fatto positivo, perché il dissenso crea il distacco e dà lo spessore del problema. Nella democrazia liberale l’unanimismo, l’essere tutti insieme e tutti d’accordo, non è un valore, anzi. Però in questa formula c’è anche un dato positivo che non va sottovalutato: le riforme costituzionali devono essere condivise perché non possono essere imposte nell’interesse di una sola parte, altrimenti l’esito terminale sarebbe una Costituzione ad personam.

E ognuno se la cambia a suo uso e consumo a ogni mutare di maggioranza.
Come in certi regimi sudamericani, in cui le forze politiche (per esempio, certi colonnelli) si presentano alle elezioni con la loro Costituzione al punto numero 1 del programma. Il nostro concetto di Costituzione, radicato nei secoli, è invece quello di un testo, un documento di princìpi stabili, più stabili della politica. Perché è la politica che deve sottostare alla Costituzione e la Costituzione non può mai diventare uno strumento della politica. Da questo punto di vista, vedrei nella formula “riforme costituzionali condivise” un aspetto positivo, questo; e non l’altro, quello secondo cui dobbiamo per forza essere tutti d’accordo. Anche perché poi questo discorso sulle riforme condivise si inserisce in un contesto in cui si dice: le riforme si devono fare, “res publica reformanda est”, e chi è contro certe riforme è un pazzo, un irresponsabile, un passatista. Secondo me, bisognerebbe riuscire a dire laicamente che le riforme, di per sé, non sono né bene né male. Bisogna vedere cosa ci si mette dentro.

Vista l’esperienza degli ultimi anni…
Vista l’esperienza… se uno volesse fare un po’ di qualunquismo potrebbe anche dire: una classe politica così degradata che cosa può produrre di buono? Sarà un discorso qualunquistico, ma evangelicamente l’albero si riconosce dai frutti, quindi… Veniamo al tema del federalismo: anche qui direi che viviamo in un clima di pensiero unico. Chi oggi osa proclamarsi non-federalista? Dico “proclamarsi” perché sappiamo benissimo che le perplessità o i dubbi in materia sono molto diffusi, ma c’è questa cappa ideologica per cui essere contro il federalismo non è à la page… Questi discorsi sul federalismo, secondo me, hanno qualcosa di fondato rispetto ai problemi che abbiamo: ormai la dimensione delle questioni politiche non coincide più con la dimensione degli Stati nazionali, quindi il federalismo dovrebbe servire a creare dimensioni sopranazionali. Invece, detto per inciso, il federalismo di cui si parla in Italia è rovesciato: non si tratta di creare unità politiche più ampie, ma di spezzare o ridurre o limitare l’unità politica nazionale verso il basso. Dall’altra parte, si dice, ci sono esigenze di avvicinamento e di sburocratizzazione.

Quali sono le tue perplessità sul federalismo?
Mentre l’esigenza di un federalismo che si rivolge a una dimensione sopranazionale la vedo chiara (anche se mi sembra che purtroppo l’Italia in generale non sia particolarmente attiva nel creare forme di solidarietà sopranazionali, europee, ma non solo europee, anzi la nostra vita politica mi pare molto provinciale), non riesco a condividere chi auspica il federalismo verso il basso. Non come dice il motto costituzionale americano ex pluribus unum, per un processo verso l’alto finalizzato a creare unità politica, ma al contrario ex uno plures. Ecco: dove ci porterà questo plures non lo sappiamo. Temo che possa essere un primo passo verso una divisione del nostro Paese.

La balcanizzazione dell’Italia.
La balcanizzazione. L’idea che muove il federalismo all’italiana è che le regioni del Sud sono sottosviluppate e inquinate dalla criminalità (come se quelle del Nord non lo fossero…) e dunque devono essere sottoposte a una scossa, per responsabilizzarne le classi dirigenti liberandole dalla tutela dello Stato centrale e costringendole a guarire da sole le proprie magagne e a risolvere da sole i loro problemi. E se non li risolvono? Quali motivi abbiamo per sperare che le regioni del Sud, lasciate da sole, siano in grado per esempio di combattere il malaffare, la criminalità organizzata, meglio di quanto non riesca a fare lo Stato centrale?

Infatti personalmente non solo sono anti-federalista, ma comincio a provare una certa nostalgia dei prefetti, possibilmente tedeschi.
Adesso non esageriamo. Tra le ragioni che oggi muovono il pensiero federalista in Italia, ce ne sono di apprezzabili: chi di noi non vorrebbe una maggiore vicinanza delle classi dirigenti ai bisogni delle popolazioni? Chi non vorrebbe una burocrazia pubblica più limitata? Chi non vorrebbe – anzi, mi viene freudianamente da dire: chi vorrebbe – classi politiche più oneste? Tutto questo fa certo parte delle nostre speranze. Ma che la risposta sia il federalismo, questo non mi è chiaro: vedo un salto tra le speranze, i bisogni e la risposta. Invece vedo chiaro il pericolo: il giorno in cui si dovesse constatare che il federalismo, invece di promuovere quel movimento virtuoso di rinnovamento delle regioni più povere, più arretrate anche dal punto di vista della cultura politica, provocasse l’effetto contrario, a quel punto le pulsioni secessionistiche aumenterebbero.

Un magistrato siciliano, Roberto Scarpinato, nel libro-intervista a Saverio Lodato Il ritorno del principe, sostiene che la nostra Costituzione è nata in un periodo eccezionale, perché in Italia le cose buone si fanno soltanto nei periodi eccezionali, quando la figura del Principe è molto indebolita e quindi è in questi intervalli della storia – il Risorgimento, la Resistenza, la Costituente, Mani pulite – che piccole élite illuminate riescono a prendere il sopravvento e a imporre a un Paese che non le vuole soluzioni più avanzate della cultura media nazionale. Quindi la nostra Costituzione fu una camicia di forza calata dall’alto sulle culture autoritarie che dominano da sempre nelle classi dirigenti italiane, infatti, non appena tornò il Principe, cominciò a picconarne i valori fondanti. Non a caso, da 15 anni, il centrodestra e il centrosinistra, al di là di quello che dicono di volta in volta secondo le convenienze del momento, sono entrambi allergici alla Costituzione. A cominciare dall’articolo 3 sull’eguaglianza, dall’articolo 11 sulla guerra, dall’articolo 21 sulla libertà di espressione, per non parlare dell’indipendenza della Magistratura. Sono 15 anni che partiti di destra e sinistra tentano di cambiare la Costituzione per attribuire maggiori poteri alla politica e smontare gli organi di controllo. Forse quella di Scarpinato è una tesi un po’ estrema, ma dal craxismo alla Bicamerale al berlusconismo, abbiamo visto avvicendarsi al governo un po’ tutti i partiti, e nessuno ha preso in mano la bandiera della difesa della Costituzione. Poi però, nel 2006, quando siamo andati a votare nel referendum confermativo sulla “devolution”, abbiamo scoperto che i cittadini apprezzano la Costituzione molto più delle loro classi dirigenti, a riprova del fatto che queste sono un po’ peggio della società che le esprime.
Peggio o meglio, a me sembra abbastanza fisiologico che le classi dirigenti abbiano un atteggiamento, un rapporto di insofferenza con la Costituzione, perché le costituzioni sono state scritte e pensate per limitare l’onnipotenza del politico e della politica. Le costituzioni della tradizione liberale sono costituzioni dei cittadini, non delle classi politiche. Quella di Scarpinato è un’interpretazione un po’ élitista, ma c’è una buona dose di verità dove si dice che la politica l’hanno sempre fatta le élite. Però la democrazia non è oligarchia, e neanche oligarchia illuminata: la democrazia vive in quanto le regole costituzionali sono interiorizzate dai cittadini. L’esempio che facevi del referendum del 2006 è sotto certi aspetti consolante. Ma di lì bisognerebbe partire per dire che la difesa della democrazia e della Costituzione è un compito che devono assumersi i cittadini. Possiamo concludere con una verità lapalissiana: la democrazia è il regime dei cittadini, dunque la difesa della democrazia è in mano ai cittadini. Non possiamo fare distinzioni tra cittadini e forze politiche. Un sistema ben funzionante è quello in cui le forze politiche interpretano effettivamente le istanze dei cittadini in rapporto continuo di rappresentanza vera e vitale. Ma, nei momenti di crisi come quello che viviamo, questo rapporto vive una frattura. E allora questo è il momento in cui la “guardia stanca”, cioè i cittadini, deve darsi una mossa e ritrovare le ragioni del proprio impegno politico.

E dare vita al partito della Costituzione.
Sì, anche se “partito della Costituzione” è quasi una contraddizione, perché la Costituzione dovrebbe essere di tutti i cittadini, non di un partito. Diciamo che deve nascere un’opinione pubblica costituzionale.

(Qui l’intervista completa)