Archivio per la categoria ‘Estero’

Parlamentarium, 24/01/2014

La prima seduta del Parlamento Europeo, a seguito delle prime elezioni europee del 1979.

La prima seduta del Parlamento Europeo, a seguito delle prime elezioni europee del 1979.

La storia europea è importante.

Si basa sul sangue e sulla sofferenza, ma anche sull’idea che è fondamentale convivere, collaborare, anzi, di più, vivere insieme.

È fondata sul sogno di avere regole egualitarie e condivise. “Nessuno deve rimanere indietro” è vero, ma solo se cediamo una parte di noi stessi, e ci contaminiamo. Non siete contenti dell’Euro? Volete uscirne e tornare alla Lira? Allora, forse, non avete capito nulla di cosa sia l’Europa e cosa sia stare in comunità.

Ci saranno, ci sono economisti pronti a decantare le lodi dell’uscita dall’Euro, perché l’unica strada che abbiamo in mente è quella crescita economica. Ma non funziona sempre così, ogni tanto si stringe il cordone della borsa e si tira avanti, più difficilmente, perché qualcun altro sta peggio. Qualcun altro della comunità, ma non solo.

“Nessuno deve rimanere indietro” applicato al Paese, al Comune, al locale, non è altro che, di nuovo, il vecchio nazionalismo, estremista per giunta. Chi se ne importa dei lettoni o degli ucraini? Prima gli italiani!

Questo dicono in tanti che cercano (ma ancora non riescono?) di “sentirsi italiani”. Hanno, anzi, mi rivolgo direttamente a voi, avete un’idea vecchia e incredibilmente stereotipata di cosa sia “essere italiano”. Io sono italiano e sono europeo, e voglio che queste due cose, per quanto possibile, coincidano, perché sono fiero di entrambe.

“Ce lo chiede l’Europa” – l’Europa è l’Italia, e noi siamo l’Europa. Per cui, andate dai vostri politici e chiedete: cosa state facendo a Bruxelles? E a Strasburgo? Chiedetelo ai vari Salvini e Borghezio (rappresentativi di quanto spesso abbiamo trascurato l’importanza delle elezioni europee), e vergognatevi per loro, ma anche per chi paventa continuamente l’idea di uscire dall’Euro, perché di fatto si segnerebbe la fine dell’idea di Europa, quell’idea che subito dopo la Seconda Guerra Mondiale ha finito con unire Stati che erano fino a poco prima nemici, avvelenati dal nazionalismo più pericoloso. Quell’idea che pochi hanno e chi ce l’ha, come penso sia il mio caso, non ha ancora capito fino in fondo cosa significhi, forse per semplice disabitudine.

“Il Parlamento Europeo è il pilastro portante dell’Unione Europea. È eletto da Voi. Voi decidete chi interpreta i vostri valori.”

 

Dalla nostra Simonetta, in diretta dalla capitale egiziana!
Ahlan wa sahlan!
Oggi incomincia la festa musulmana dell’Aid al-Adha che durerà fino al 30 ottobre. Contemporaneamente si svolge, al Mokattam, l’assemblea annuale generale dei padri comboniani in Egitto. La casa resterà dunque vuota per alcuni giorni ed io le farò da guardia assieme a Sabah, Susu, Abdallah e Joseph.
Pioggia sul Cairo.
Ma vi voglio parlare di ieri, 24 ottobre, giorno in cui al Cairo è caduta la pioggia, mezz’ora di pioggia … Per questa città si tratta di un vero evento, che ha generato lo stesso stupore che creano i primi fiocchi di neve a Roma, ma senza lo stesso panico.
Stupore anche per il periodo in cui l’evento è accaduto … in genere, i 4 giorni di pioggia sono destinati al mese di gennaio … il cielo ci ha anche regalato l’inaspettato scatenarsi di un tuono: uno solo, ma davvero imponente!
Era il tardo pomeriggio, dunque già buio, e con Joseph siamo andati al negozio della Singer a prendere dei pezzi di ricambio per la macchina da cucire che uso per i burattini.

19 ottobre 2012

Ahlan wa sahlan!

Oggi, dopo un lungo percorso, la manifestazione per la democrazia denominata “Millionere”, è giunta a piazza Tahrir, che significa “libertà”. Ho voluto andarci in piazza, per assaporare questo momento così importante.

Il tema di fondo, espresso con diversi slogan, è stato “Siamo tutti egiziani“, “L’Egitto agli egiziani“. 

Hanno sfilato anche le donne e per me è stato emozionante sentire le loro voci alzarsi sfidando una cultura che le vede ancora poste un gradino sotto l’uomo.

Ma l’emozione ha riguardato tutto e tutti: essere presente ad una manifestazione per la conquista della libertà di pensiero e parola, dunque della democrazia, in un paese complesso e delicato come l’Egitto, fa certamente  riflettere

Mi chiedo: quanta fatica costa lottare per ottenere quei diritti che solo la democrazia può darci? e quanto è capace l’essere umano, dopo l’entusiasmo della conquista, di non cedere alle lusinghe del potere che da la delega democratica? e quanto è capace di mettere in atto la democrazia diretta e realmente partecipata? E quanto,  infine, chi vanta di essere democratico e di governare per il bene dei cittadini, lo fa per se stesso, per il proprio ego anziché per il bene e per amore della collettività? 

Dice Lao Tsu nel 17 capitolo del Tao Te Ching:

Di un grande leader che lo governa,
il popolo non avverte quasi la presenza.
Poi viene quello amato e stimato.
Poi quello temuto.
Infine quello combattuto e disprezzato.
Quando un capo  non si fida di nessuno,
nessuno si fida di lui.
Il grande leader parla poco.
Non parla mai sconsideratamente.
Lavora senza badare ai propri interessi
e si ritira in buon ordine.
A opera compiuta, i sudditi dicono:
abbiamo fatto tutto da soli.

(Tratto da: La saggezza del Tao, Wayne W. Dyer, Corbaccio edizioni)

Con questa riflessione, che mi piace condividere con voi, vi lascio con alcune foto della manifestazione.

Salam!

Ahlan wa sahlan

Pubblicato: 21/10/2012 da Martino Ferrari in Estero, Pensieri, Politica, Simo, Società

Direttamente dal Cairo, il primo contributo della nostra collaboratrice nuova di zecca, Simonetta! Prossimamente ci racconterà le esperienze e le sensazioni che vivrà in questa nuova avventura.Buona lettura!

Ahlan wa sahlan! Ciao!

Sono Simonetta, altrimenti detta “la Simo” e scrivo dal Cairo dove mi trovo per trascorrere un periodo di sei mesi di volontariato presso la missione dei padri Comboniani “Cordi Jesu”.

Come sono giunta fino qui, in questo periodo “caldo” non solo per le temperature, è presto detto. Dopo anni di volontariato prestato con l’associazione ecologista Nimby trentino (www.ecceterra.org) in opposizione alla costruzione dell’inceneritore e per una diversa gestione dei rifiuti e con CORE trentino alto adige (www.coretrentino.org) con cui ho collaborato per la presentazione di due quesiti referendari per abrogare i privilegi dei politici, ho sentito il bisogno di cambiare aria lasciando quel “ginepraio” che è diventato il mondo della politica trentina. Staccare la spina allontanandosi dall’arroganza con cui viene gestita la politica trentina per fare qualcosa di concretamente utile, mi è parso il modo migliore per rigenerare la grande quantità di energia spesa in questi anni.

Ringrazio Martino e Nicola che danno spazio a questa esperienza, di cui ogni tanto racconto sul blog Egittando.

Salam!

Cinque giorni fa vi ho segnalato un articolo a proposito di una strana malattia scoperta in molti villaggi ugandesi, il disturbo chiamato “Nodding disease” (clicca per leggere il post).

Vorrei perciò segnalarvi un altro articolo molto interessante, a firma di Gianfranco Della Valle, dal titolo “Nodding Disease: una malattia che preoccupa e fa orrore” (fonte: altrenews.com). Riporta le origini ancora incerte di questa malattia, la sua diffusione ed esprime un giudizio, tristemente pertinente alla realtà, a mio dire, a proposito della posizione della comunità internazionale: “Certo, finchè la malattia colpirà solo un pò di bambini neri dell’Uganda, sarà molto difficile che la comunità scientifica internazionale, e l’opinione pubblica, si attivino seriamente per evitare l’ennesima violenza sull’infanzia africana. Forse parlarne può aiutare.

Buona lettura.

Abbiamo cominciato a parlare dell’Uganda qualche giorno fa, a proposito di Kony. Mi è capitato di leggere un articolo su noncipossocredere.com a proposito di una stranissima (e inquietante, a mio dire) malattia, chiamata “Nodding disease”, che colpisce bambini tra i 3 e i 19 anni, in molti villaggi Ugandesi. Parrebbe una malattia degenerativa del cervello, che li riduce ad esseri vuoti e isolati, a tratti violenti.

Ho pensato che potesse essere interessante per voi leggerlo, e che in effetti fosse utile informarsi anche sulle condizioni e sulle situazioni presenti in Uganda. La mia stessa ignoranza a proposito di questo stato, e dell’Africa in generale mi spinge a condividere con voi questo articolo. È presente anche un video, in inglese.

Vorrei parlarvi oggi di un video virale, noto soprattutto agli utenti di Facebook, chiamato “Kony 2012“. Il filmato, che vi invito a guardare, ha ottenuto ormai più di 86 milioni di visualizzazioni. Qua sotto trovate il video da Youtube, nella versione sottotitolata in italiano.

Dunque, di cosa si tratta?

L’organizzazione di volontariato americana Invisible Children ha lanciato poche settimane fa questo video-denuncia a proposito dei crimini commessi da Joseph Kony, leader dell’organizzazione criminale chiamata L.R.A. (acronimo di Lord’s Resistance Army) che opera nelle foreste dell’Uganda. I delitti di cui è accusato sono atroci: rapimento di bambini e bambine per trasformare i primi in soldati e per sfruttare le seconde come schiave della prostituzione.

Lo scopo del video e della campagna di informazione ad esso associata è di fare in modo che Kony venga arrestato entro l’anno che è in corso, il 2012 (da qui il nome per la campagna: “Kony 2012”). Ma come si dovrebbe fare?

Il governo americano, dopo che Invisible Children ha incontrato politici e senatori di tutti gli schieramenti, ha mandato in missione in Uganda degli istruttori muniti di attrezzature e conoscenze, per aiutare le forze locali a stanare Kony dal suo nascondiglio nella giungla. Al minuto 21:39 la voce narrante del filmato ci avverte che la missione rischia però di terminare, se il guerrigliero non verrà trovato entro l’anno:

Per far in modo che Kony venga arrestato quest’anno, le forze militari ugandesi devono riuscire a trovarlo. Per trovarlo hanno bisogno di tecnologia e di addestramento per rintracciarlo nella vasta giungla. Ecco perché gli istruttori americani sono lì, ma per far in modo che i consulenti americani siano lì, il governo americano deve schierarli. Lo ha fatto. Ma se il governo non credesse che le persone abbiano a cuore l’arresto di Kony, la missione verrebbe cancellata. Per far in modo che le persone prendano a cuore la questione, devono sapere. E lo verranno a sapere solo se il nome “Kony” sarà ovunque..

Make him famous“: rendere questo signore famoso, affinché la comunità internazionale, la gente e soprattutto il governo americano facciano qualcosa. Questo è il messaggio principale del video.

Ora vorrei invitarvi, di nuovo, a vedere questo filmato: nel prossimo post vorrei parlarvi di alcune mie perplessità a proposito di esso e dell’intera campagna. Mi sono posto alcune domande sull’impostazione del video, sul linguaggio utilizzato e sulle soluzioni proposte dall’organizzazione. Ma prima, davvero, guardatelo e osservatelo bene, anche se è relativamente lungo.

La Grecia brucia. Sommosse, proteste, violenze. Ed è facile condannarle. Un po’ più difficile è immedesimarsi in quelle persone che hanno perso tutto. Sono state licenziate da un giorno all’altro, hanno visto scomparire metà del loro stipendio o della loro pensione, si sono ritrovati senza più nemmeno i soldi per mangiare o pagare le bollette. Sono entrati in una notte che non accenna a schiarirsi. Anzi, le nuove misure che il governo greco sta varando peggiorano la situazione.

E in tutto il mondo se ne discute. La Grecia fallirà, non fallirà, deve uscire dall’euro, deve accettare le nuove misure, deve pagare per i suoi errori. Ma è di persone che stiamo parlando. Di vite. Di famiglie. Esistenze che andranno in pezzi, schiacciate dal peso di un’austerity che non porterà, alla fine, benefici, che non farà uscire il paese dalla crisi. Come si può pensare di salvare uno Stato in recessione già da anni dimezzando pensioni e stipendi, licenziando dipendenti pubblici ed alzando le tasse?

Si parla di persone, cazzo. Eppure sembra inevitabile imporre questa morte lenta ai greci. Noi stessi ci siamo abituati ad accettare l’idea che si possa far gravare tutto il peso di una crisi economica causata dalle banche e dai banchieri sulle spalle della gente comune. Mentre invece si salvano gli istituti bancari iniettando denaro e prestando loro denaro ad un tasso di interesse dell’1% (mentre loro poi lo presteranno a loro volta al 4-5%) come fa la BCE. In questo modo le banche perderanno meno soldi, ma i cittadini dovranno pagare di più.

Non è tollerabile. Ma stiamo a guardare, ormai abituati, assuefatti. Sussultiamo, certo, di fronte ai racconti delle famiglie greche (e italiane) che stentano a sopravvivere, ma ci sembra inevitabile. Ci siamo abituati alla fine.

E intanto guardiamo ai nostri affari. Agitando lo spettro della Grecia e della catastrofe ci obbligano ad accettare tutto. E accettiamo, chiniamo la testa. E se protestiamo ci dicono che insomma, cosa pretendiamo, la situazione è quella che è, non dobbiamo essere irresponsabili. Ed è vero, la situazione è straordinaria, per carità. E così ingoiamo cose che non avremmo mai pensato di poter accettare. Ci abituiamo alla fine.

Dopotutto in questo nuovo assetto del mondo non decidiamo più nulla. Stiamo in disparte a guardare. Non siamo attori e nemmeno comprimari. Forse comparse.

E’ tutto vero è tutto vero

ci siamo solo persi di vista

E’ tutto vero è tutto vero

ci vuole tempo per ricominciare

per abituarsi alla fine

(Abituarsi alla fine – Ministri)

Dal blog di Stefano Feltri su ilfattoquotidiano.it.


Tutte le contraddizioni della crisi europea riassunte in una giornata. Il governo greco accetta i nuovi sacrifici imposti dalla troika (Unione europea, Fondo monetario e Banca centrale europea). Ma l’eurogruppo, il coordinamento dei ministri economici dell’euro, non ha sbloccato gli aiuti, i 130 miliardi del secondo piano. Perché? Non sono soddisfatti, troppo vago l’accordo, non si fidano che gli impegni traumatici (altri tagli ai salari, licenziamenti pubblici di massa, privatizzazioni e così via) vengano rispettati. E la Grecia resta sospesa sull’orlo della bancarotta incontrollata, prevista tra poco più di un mese quando il governo deve rinnovare circa 15 miliardi di euro di debito pubblico.

Tutto questo suona abbastanza strano, visto che il problema dei problemi, nella crisi di Atene, non sono certo i salari degli statali, quanto il ruolo delle banche: da settimane continua un negoziato tra il ministro delle Finanze Evangelos Venizelos e le banche che detengono il grosso del debito pubblico greco, rappresentante dall’Istituto per la Finanza internazionale e dal negoziatore Charles Dallara. Tutti, a Bruxelles e nei ministeri d’Europa, sanno che le banche dovranno rassegnarsi a perdere tra il 70 e l’80 per cento delle somme prestate. E dovranno farlo volontariamente, per non far scattare i famigerati Cds, derivati speculativi che impongono sanzioni in caso di bancarotta (cioè quando un creditore non riesce ad avere indietro i suoi soldi). Venizelos dice: “Dopo lunghi negoziati abbiamo l’accordo per un programma forte di aiuti e un accordo con i creditori privati”. Non si conoscono i dettagli, ma è singolare che Bruxelles chieda chiarimenti sui tagli e i sacrifici imposti ai cittadini e non su quelli che le banche si impegnano a sopportare. Più pagano gli istituti di credito, meno dovranno soffrire i greci. Ma questa equazione non interessa molto in Europa, dove prevale una linea rigidamente tedesca che ormai non maschera neanche più la soddisfazione di punire Atene e di far espiare i suoi cittadini dalle mani bucate.

La Bce, secondo la linea imposta da Mario Draghi, lascia tutto il peso della crisi sugli Stati. Non accetterà perdite sui titoli greci in portafoglio, diventando una sorta di creditore privilegiato (perché le altre banche qualcosa comunque pagheranno) e usa il proprio bilancio solo per sostenere i grandi gruppi del credito che, dopo i quasi 500 miliardi di dicembre, il 19 febbraio ne avranno altri mille, al tasso di favore dell’1%, dando in garanzia qualunque titolo di cui vogliono liberarsi. Finora questa strategia non ha fatto progredire di un solo passo verso una qualche soluzione della crisi. L’unico spunto per un cauto ottimismo deriva proprio dalle lungaggini burocratiche: prolungando ancora l’agonia della Grecia forse Monti e Obama faranno in tempo a convincere Angela Merkel a portare da 500 a mille miliardi il Fondo salva Stati Esm. E la Grecia potrebbe trovare una rete di protezione. Se non fallisce prima, cosa da non escludere.

Davvero non c’è rimedio contro la delocalizzazione delle imprese? A sentire la politica, sembra che non si possa evitare che le aziende traslochino in Polonia, Serbia, Brasile, dove la manodopera non costa praticamente nulla e le tasse pesano infinitamente meno sul prodotto e sul lavoro.

Agitando lo spettro dello spostamento della produzione, manager e grandi imprese (Fiat in testa) strappano concessioni sempre più importanti in tema di diritti dei lavoratori, disponendone un po’ come pare a loro. Pause tagliate, orari dilatati, straordinari obbligatori, divieti di sciopero, ostracismo nei confronti di lavoratori iscritti a certi sindacati e via di seguito. Attuando una vera e propria (e illegittima) limitazione nei diritti. E, probabilmente, attentando anche alla dignità e all’uguaglianza dei lavoratori.

Ma non tutto il mondo è paese. Barack Obama, recentemente, ha affrontato proprio questo problema. Ed è stato chiaro: le imprese che vogliono delocalizzare le loro sedi non potranno dedurre nemmeno un dollaro di tasse e nessuna compagnia americana potrà pagare le tasse solo nel paese in cui si sono spostati la produzione e i profitti (dovrà farlo anche negli USA). Molto semplice. E tutti i soldi risparmiati o guadagnati con queste operazioni andranno a finanziare le imprese che rimangono sul territorio americano o che vi fanno ritorno e a diminuire le tasse di chi resta negli USA e qui assume. Infine, la chicca: chi riporta negli Stati Uniti la produzione e lo fa in un distretto pesantemente colpito dalla crisi riceverà aiuti come finanziamenti per impianti e aggiornamento professionale per i nuovi assunti.

Misure simili sono già state assunte negli anni passati da singoli Stati, come Texas, Arizona e Colorado, con risultati sorprendenti: negli ultimi due anni decine di aziende hanno riportato la produzione  negli stati in cui sono stati varati incentivi e tagli fiscali (5,4 aziende alla settimana, secondo la stima di mercatus.org). Conseguentemente, si sono creati decine di migliaia di posti di lavoro.

Tutto questo dimostra che, volendo, i mezzi per impedire, o comunque scoraggiare, il trasferimento di sede delle imprese in altri Stati ci sono. Con questi metodi, si possono salvare migliaia di posti di lavoro, e quindi di vite.