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Due parole di risposta all’articolo del mio collega Albatro.

La forza del Movimento 5 Stelle è proprio quella di non apparentarsi con nessun partito. Ogni giorno infatti sentiamo politicanti di ogni colore politico affermare pomposamente che il loro partito è diverso da tutti gli altri, si propone come alternativa, come forza nuova ecc. Ma la realtà è un’altra.

Io non penso che tutti i partiti siano uguali. Il partito di B. e la Lega non sono uguali al PD o all’IdV. Non c’è dubbio. Dubito di vedere un giorno Di Pietro imporre una legge ad personam o Bersani costringere il suo partito a votare una mozione nella quale si dice che lui ha telefonato ad una questura per far rilasciare la tal signorina (si fa per dire) perchè è nipote di Mubarak. Su questo non ci piove.

Ma, sulle cose davvero importanti, soprattutto a livello locale, come gli inceneritori, la TAV, le energie alternative, la cementificazione o l’acqua pubblica (il PD ha iniziato davvero ad occuparsene, sostenendo e pubblicizzando il referendum, solo ora che intravede un ritorno elettorale), troppo spesso i due schieramenti hanno avuto posizioni identiche. Per tacere poi le quintalate di porcherie che a livello nazionale il centrosinistra ha fatto, mostrandosi un ottimo replicante di B. (leggi vergogna mai abrogate, legge bavaglio uguale a quella di Alfano, assenze alla votazione sullo scudo fiscale…). E anche se le posizioni locali o nazionali sono condivisibili (ovviamente secondo il mio punto di vista), spesso sono affidate a persone davvero inqualificabili, come i vari Calearo, Scilipoti, Veltroni, Letta.

Quindi i ragazzi del Movimento fanno benissimo a non aggregarsi a nessuno. Che rimangano soli, e vedremo. Entrambi gli schieramenti dovranno fare i conti con questa nuova realtà, che ha il grande pregio di riportare a votare persone che non hanno nessuna intenzione di dare la loro preferenza ai tradizionali carrozzoni di gentaglia assortita che formano le liste degli altri partiti.

Il motivo per cui non devono fare alleanze con nessuno è molto semplice: loro sono davvero diversi. Non perchè Grillo sia un santo e tutto quello che fa sia giusto; non perchè siano persone più intelligenti di tutti gli altri; non perchè i loro progetti siano perfetti. Sono diversi perchè è diversa la struttura su cui poggiano. Sono solo il terminale di un gruppo, che partecipa, propone, discute, analizza. E il gruppo è formato dai cittadini, parte integrante del progetto.

Grillo è discutibile e criticabile finchè si vuole per i suoi metodi, per alcune idee, per i toni, per tantissimi motivi. E non solo si può criticarlo, ma si deve criticarlo, ci mancherebbe. E allo stesso modo si deve fare col Movimento 5 Stelle, perchè è una realtà in crescita e nata da poco, che ha bisogno di confronto e di essere messa in discussione. I grillini quindi devono stare ad ascoltare le idee diverse, ma non i sermoni di persone che non hanno più nulla da dire, che siedono in Parlamento da secoli ed hanno contribuito, chi più chi meno, allo sfascio attuale. Bisogna ascoltare la gente comune, i passanti, i votanti, i cittadini, quel popolo al quale sempre tutti si appellano. E il Movimento 5 Stelle, tramite internet, fa proprio questo.

Io non so come finirà questo esperimento, ma che le liste 5 Stelle tra qualche anno spariscano oppure che rimangano, la politica tradizionale dovrà tenere conto della loro esistenza e cambiare qualcosa al suo interno. E credo che questo, in un Paese immobile, vecchio, immutabile come l’Italia, sia un grande cambiamento e una bella vittoria.

Ecco a voi l’editoriale di Marco Travaglio tratto dalla puntata di Annozero del 17/03/2011. L’argomento è la riforma della giustizia. Consiglio di vederlo per la chiarezza con cui viene esposta la materia. Più sotto, due pezzi sempre di Travaglio per l’Espresso, sempre sulla riforma, che mostrano l’assoluta inutilità e illogicità dell’intervento legislativo del governo. Buon visione e buona lettura.

La bufala della ‘riforma epocale’

(11 marzo 2011)

“Facciamo le riforme!”,strilla un omino di Altan su “l’Espresso” di un anno fa. e l’altro, perplesso: “Ancora? ma non le avevamo già fatte?”.Sono 17 anni che si annuncia la “grande riforma della giustizia”. Ora, bontà sua, Silvio Berlusconi ne minaccia una “epocale”.

Purtroppo si tratta dell’ennesima riforma non della giustizia, ma dei giudici: stravolgerà i capisaldi costituzionali dell’indipendenza della magistratura, dell’unicità delle carriere, dell’obbligatorietà dell’azione penale, dell’autogoverno del Csm.

Ma, se mai entrerà in vigore, non accorcerà di un nanosecondo la durata dei processi, universalmente nota come la prima piaga della giustizia italiana: perché non sfiora neppure i meccanismi farraginosi della procedura penale, ma investe soltanto gli assetti della magistratura. Quanto alla sua prodigiosa “epocalità”, vien da sorridere, visto che il progetto Berlusconi-Alfano sa di muffa, essendo copiato per metà dal “Piano di rinascita democratica” piduista di Licio Gelli (1976) e per metà dalla bozza Boato della Bicamerale D’Alema (1998).

A giudicare dall’attesa spasmodica seguita all’annuncio-minaccia del premier e del Guardasigilli ad personam, si direbbe che la giustizia italiana soffra di penuria di riforme. Balle: ne ha avute fin troppe. Nessun altro settore della vita civile è stato “riformato”, nella Seconda Repubblica, quanto la giustizia. Secondo i ricercatori di openpolis.it, il nostro Parlamento impiega il 60 per cento del suo tempo a discutere e approvare leggi penali. Inoltre, se vale 100 l’impegno (disegni e proposte di legge, emendamenti, interrogazioni) in questo settore, l’attenzione dedicata ad altri temi è modesta: un ventesimo a combattere la corruzione, un sesto alla disoccupazione, un quinto alla tutela dei beni culturali e artistici, un terzo alla ricerca scientifica, la metà all’evasione fiscale.

Dal 1994 a oggi sono state approvate quasi 200 leggi in materia penale. Tutte presentate come risolutive per accorciare i tempi biblici dei processi, hanno regolarmente sortito l’effetto opposto: allungarli vieppiù. Se nel 1999, dalle indagini preliminari alla sentenza di Cassazione, passavano in media 1.457 giorni, oggi (dati del ministero della Giustizia) siamo sopra i 1.820. Anche perché nel frattempo sono stati continuamente tagliati i fondi al bilancio della giustizia, che hanno creato spaventose inefficienze e scoperture d’organico.

A Milano, secondo tribunale d’Italia, manca da anni il 35 per cento dei cancellieri. Ed è raro trovare un palazzo di giustizia, nel Paese, dove si celebrino udienze anche il pomeriggio dopo le 14: perché manca il turn over del personale ausiliario e gli straordinari sono bloccati. Basterebbe riempire i vuoti, magari accorpando una ventina di piccoli tribunali di provincia, per raddoppiare la produttività degli uffici giudiziari, aiutandoli a smaltire l’arretrato anziché ad accumularlo. Ma di tutto questo nessuna “epocale” riforma s’è mai occupata. Anzi, come scrive Luigi Ferrarella sul “Corriere della Sera”, «i processi lenti fanno diventare i processi ancora più lenti».

Da un lato l’aspettativa di prescrizione incoraggia gli avvocati a escogitare ogni sorta di cavilli per allungare ancor più il brodo. Dall’altro la legge Pinto del 2001 (uno dei capolavori del centrosinistra), che regola le cause di risarcimento per l’eccessiva durata dei processi, ha sortito questo bel miracolo: queste cause, da sole, occupano il 20 per cento dell’attività delle Corti d’appello. Così ogni processo lento sanzionato dalla Corte europea rallenta tutti gli altri. Geniale, no? Sorge persino il sospetto – sicuramente infondato, si capisce – che proprio questo fosse e sia lo scopo della patologica “riformite giudiziaria” che affligge da vent’anni destra e sinistra: paralizzare definitivamente la giustizia con la scusa di velocizzarla. Missione compiuta.

Ora, delle due l’una: se i politici che hanno pensato e votato le 200 “riforme” l’hanno fatto apposta, sono dei mascalzoni; se invece credevano davvero di accelerare i processi, e invece li hanno rallentati, sono dei cialtroni. In entrambi i casi, è meglio per tutti che si astengano dal pensarne e dal votarne altre. Chissà che, lasciato finalmente in pace da questo accanimento riformatorio, il corpo esanime della nostra giustizia non riprenda un po’ di vita e di colore da solo.

LA LEGGE ALFANO RIFORMA ANCHE LA LOGICA

(18 marzo 2011)

Oltre ai valori costituzionali,la «riforma epocale» della giustizia made in Berlusconi- Alfano stravolge anche i canoni della logica. Se, diritto a parte, la si esamina alla luce del principio di non contraddizione,non si scappa: o è stata scritta da squilibrati, o da bugiardi.

1 Occorre, spiegano i riformatori, «ridurre la politicizzazione della magistratura ». Poi però ribaltano la composizione del Csm: oggi è formato per due terzi da giudici e per un terzo da politici, domani saranno metà e metà. Solo un matto può pensare di spoliticizzarlo aumentando i politici e trasformando l’organo di “autogoverno” in “etero-governo”. E sottraendo per giunta la polizia giudiziaria ai pubblici ministeri per consegnarla al governo.

2 L’obbligatorietà dell’azione penale, dicono, è una finzione che nasconde la discrezionalità: non potendo perseguire tutti i reati, i pm scelgono quali perseguire e quali no. Dunque sarà il Parlamento, su indicazione del Guardasigilli, a stabilire ogni anno i reati da privilegiare e da ignorare. Ma che senso ha dire che un comportamento è reato, già sapendo che non sarà punito? Se non si possono perseguire tutti, tanto vale depenalizzare quelli davvero minori e punirli con sanzioni amministrative. Invece questo governo non fa altro che inventare nuovi reati, dai maltrattamenti sugli animali al taroccamento dei decoder- pay tv, dall’abbandono di pattume in strada all’immigrazione clandestina (nell’ultimo mese la Procura di Agrigento ha dovuto indagare quasi 10 mila immigrati sbarcati a Lampedusa senza permesso di soggiorno e dovrà processarli tutti). Poi taglia fondi e personale alle Procure. E si meraviglia se queste annaspano.

3 La separazione delle carriere, argomentano, assicura «la terzietà del giudice », oggi influenzato dalla colleganza con il pm. Strano: per giustificare la responsabilità civile dei giudici (punto 5) si spiega che in Italia un indagato su due viene poi archiviato, assolto o prescritto. � la prova che la colleganza non impedisce al giudice di dare torto al pm. Ma, se così non fosse, come scongiurare il rischio che il primo giudice condanni l’imputato che il collega gup ha rinviato a giudizio? Che il giudice d’appello ricondanni l’imputato condannato dai colleghi del tribunale? Che i giudici di Cassazione confermino la condanna emessa dai loro colleghi d’appello? Se è la colleganza corporativa che si vuole spezzare, bisogna istituire almeno sette carriere separate: pm, gip, gup, riesame, tribunale, appello e Cassazione.

4 Gli imputati potranno ancora appellare le condanne, ma i pm non potranno più appellare le assoluzioni. Il giurista Franco Cordero parla di «idea asinina», già bocciata dalla Consulta. Ma è anche un attentato alla logica: l’errore giudiziario non è solo la condanna dell’innocente, ma anche l’assoluzione del colpevole. Che senso ha rimediare solo alla prima?

5 «Il giudice che sbaglia, spiega Alfano, deve pagare, come il chirurgo che sbaglia un’operazione». Ma il paziente il chirurgo se lo sceglie, mentre l’imputato non si sceglie il magistrato. E il magistrato non ha il compito di salvare vite, ma di fare giustizia «senza speranza né timore»: nel penale, se inquisisce o condanna, si fa regolarmente un nemico; nel civile, dovendo per forza dare ragione a Tizio o a Caio in causa fra loro, scontenterà inevitabilmente uno dei due. E poi, se l’errore medico è facile da accertare, che cos’è un errore giudiziario? Non certo il caso dell’indagato o dell’arrestato che poi non viene condannato. Capita spesso che esistano i presupposti per indagare o arrestare, ma non per condannare. Infatti oggi la presunta vittima di errore giudiziario fa causa allo Stato, che può rivalersi sul magistrato in caso di dolo o colpa grave. Altrimenti, per evitare rogne, il magistrato non farà più nulla: indagini, né arresti, né sentenze. � questo che vogliamo? Nel 1894, quando tutti gli imputati per lo scandalo della Banca Romana furono assolti, Giovanni Giolitti commentò: «Ora avremo la prova che in Italia i grossi delinquenti, oltre a essere assolti, con i milioni rubati possono far processare chi li aveva denunciati e messi in carcere». E non conosceva Berlusconi.

Ecco a voi la nona puntata della serie “La metamorfosi” di Stefano Disegni, tratta dal Misfatto del 21 febbraio 2011. Consigliamo di leggere il riassunto delle puntate precedenti, in cima alla striscia. Buona lettura!

(Clicca sull’immagine per ingrandire)

di Aristofane

Da anni ormai si parla dello scandalo dei preti pedofili. Ma mai come in questo momento le accuse erano arrivate così vicine al papa. Ricostruiamo alcune delle tappe di questa vicenda.

In Germania vengono progressivamente a galla, tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, prove di abusi sessuali perpetrati da preti nei confronti di ragazzini. Si parla degli abusi commessi (poi accertati) nel liceo “Canisius” di Berlino, gestito dai gesuiti; successivamente, lo scandalo si allarga e tocca il coro di voci bianche di Ratisbona, guidato dal 1964 al 1993 da Georg Ratzinger, fratello di Benedetto XVI. L’agenzia di stampa francese “France Presse” sostiene che monsignor Gehrard Ludwig Mueller, vescovo di Ratisbona, avrebbe scritto sul suo sito una lettera ai genitori, nella quale si scusava per gli abusi commessi. Ma nè sul sito del vescovo di Ratisbona, nè sulla home page della diocesi c’è traccia della lettera. Vi si trova invece un articolo in cui si dice che sono state riportate accuse di pedofilia sulle quali la diocesi avrebbe iniziato ad indagare. D’accordo con la diocesi, la direzione del coro ha informato, in una lettera pubblicata sul proprio sito ed indirizzata ai genitori dei cantori, che avvenimenti di questo genere sono potuti accadere in passato. Per ora c’è un solo condannato per abusi nel 1958, il caso a cui si riferirebbe la lettera di monsignor Mueller. Ma Clemens Neck, portavoce del vescovo, ha dichiarato a “France Presse ” di “avere informazioni su presunti abusi commessi tra il 1958 ed il 1973, sui quali vogliamo che si conduca un’inchiesta trasparente”. Non c’è comunque ancora nulla di certo riguardo i casi di pedofilia che sarebbero avvenuti durante la direzione del coro da parte di Georg Ratzinger.

Verso la fine di marzo, il caso esplode molto vicino a Ratzinger. Il “New York Times” diffonde una notizia sconvolgente: un certo Padre Murphy, impiegato a Milwaukee in un istituto per bambini sordomuti tra il 1950 ed il 1974, si è reso responsabile di duecento abusi su minori. Dopo la prima denuncia, risalente al 1974, il prete non viene allontanato dal sacerdozio, ma gli si permette di trasferirsi in un’altra città (dalla madre) e di continuare a servire in parrocchia. Nonostante i vescovi locali lo interroghino e lo facciano visitare da diversi psicologi, per vent’anni non succede assolutamente nulla. Solo nel 1996 si decide di aprire un processo ecclesiastico, ed il vescovo della diocesi, monsignor Weakland, si rivolge al cardinale Ratzinger, che in quel momento guida la Congregazione per la Dottrina della Fede, per sapere come procedere. Due sue lettere rimangono senza risposta. Otto mesi dopo, monsignor Bertone dà indicazione di avviare un processo canonico. Ma il prete colpevole scrive, nel gennaio del 1998, a Ratzinger, invocando la sua malattia, e tutto si blocca. Il 30 maggio 1998, in Vaticano, si tiene una riunione tra i due vescovi americani, Bertone ed il sottosegretario della Congregazione padre Girotti. Durante l’incontro “sorgono dubbi circa la fattibilità e l’opportunità del processo canonico” (testuale da” l’Avvenire”) a causa del tanto tempo passato. Il risultato è che Murphy evita il processo, e quei duecento bambini sordomuti non avranno mai giustizia.

Nei giorni successivi, Il “New York Times” rincara la dose. Anche nel caso di Monaco, nel quale il prete pedofilo Hullermann non fu trasferito in un’altra parrocchia, Ratzinger sapeva, informato da un memorandum. Inoltre, il 15 gennaio 1980 presiedette la riunione in cui si decise il trasferimento del prete pedofilo. Il Vaticano smentisce però questa ricostruzione, ribadendo, attraverso il suo portavoce Lombardi, che Ratzinger non fu mai a conoscenza del fatto. Finora è appurato che l’allora arcivescovo Ratzinger partecipò ad una riunione in cui si decise di accogliere il prete pedofilo Hullermann senza dargli un incarico. Il memorandum in cui lo si informa che il prete pedofilo andrà a prestare servizio in una parrocchia esiste, ma non è chiaro se Ratzinger l’abbia letto o meno.

E’ vero, il papa si è impegnato e si sta impegnando sul fronte degli abusi. Nella lettera ai vescovi irlandesi Ratzinger ammette i silenzi della chiesa in questi anni ed il fatto che le pene previste non siano state applicate, riconosce le responsabilità della Chiesa ed esprime in suo nome vergogna e rimorso. Inoltre, Benedetto XVI ha condannato ed obbligato a ritirarsi da ogni ruolo pubblico Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, colpevole di abusi e denunciato inutilmente negli anni ’90. Quindi Ratzinger, in questo senso, riconosce gli errori commessi e apre la strada ad un nuovo momento di impegno della chiesa nella direzione della lotta ai preti pedofili.

Ma, allo stesso tempo, il papa non fa chiarezza sui casi sopra citati che lo riguardano; la chiesa grida alla persecuzione (paragonando i presunti attacchi che sta subendo agli “aspetti più vergognosi dell’antisemitismo“); i legali del Vaticano mettono a punto una strategia per evitare che il Santo Padre venga chiamato come testimone in due processi a carico di vescovi americani; durante la messa delle Palme il pontefice non fa nessun riferimento specifico alo scandalo, pur avendo un’ottima occasione per rispondere. Questi comportamenti certo non aiutano a migliorare la sua immagine, già colpita dalle notizie di cui abbiamo parlato.

La chiesa si considera sotto attacco, abbiamo detto. Ma invece di spendere le sue energie in strategie difensive ed attacchi alla stampa, forse dovrebbe impegnarsi di più a condannare i colpevoli e fare semplicemente chiarezza su ogni aspetto delle vicende, in modo che la gente ritrovi fiducia in lei. E che i bambini e i ragazzi che cercavano in un prete un amico ed un confidente, trovandovi invece un mostro, possano avere giustizia.

(Intanto quel genio del ministro della giustizia Alfano invia gli ispettori a Milano per punire il pm Forno, che  nei giorni scorsi, in un’intervista al “Giornale”, aveva parlato delle reticenze della chiesa sui casi di pedofilia. Non si capisce il motivo dell’invio degli ispettori. O meglio, si capisce anche troppo bene: il governo cerca in ogni modo l’appoggio della chiesa)